Di Eugenio Peralta
Violenza sessuale, abusi e molestie nel mondo dello sport: un tema purtroppo ricorrente nelle cronache, ma altrettanto spesso dimenticato e nascosto da un mondo che in passato ha preferito in molti casi evitare di fare i conti con i suoi “fantasmi”. A squarciare il velo di omertà ha contribuito non poco, nel nostro paese, il libro “Impunità di gregge” di Daniela Simonetti, edito da Chiarelettere e recentemente premiato come miglior opera prima al Premio Internazionale Città di Como.
Un volume che nasce dall’esperienza ormai pluriennale dell’autrice, giornalista e scrittrice che nel 2017 ha fondato insieme ad Alessandra Marzari, presidente del Consorzio Vero Volley, l’associazione Il Cavallo Rosa-Change the Game, da allora in prima linea nella lotta contro gli abusi. L’abbiamo intervistata partendo proprio dal riconoscimento ricevuto a Como:
“Lo considero un riconoscimento molto importante in chiave collettiva – spiega Simonetti – perché dà visibilità a un tema a lungo oscurato. È un premio di grande prestigio, a cui dà forza ancora maggiore la presenza nella giuria di una persona come Dacia Maraini, che ha sempre sposato questa causa. Ne sono molto felice: lo dedico a ragazzi e ragazze che sono state vittime di queste vicende e hanno trovato il coraggio di portare avanti la loro vita, in un mondo che per la prima volta sta guardando a loro appunto come vittime, e niente altro“.
Il successo di questo libro dà una speranza in più nella lotta al fenomeno degli abusi?
“Sicuramente sì, è stato un libro sofferto e difficile da realizzare, ma credo che sia arrivata al pubblico la richiesta d’aiuto per divulgare un messaggio che è sempre al fianco dello sport, e mai contro. Credo anzi che questo sarà uno dei temi centrali per lo sport nei prossimi anni: senza questa consapevolezza non si potrà andare avanti“.
Qualcosa sta cambiando nel mondo dello sport da quando lei ha iniziato la sua attività nel settore?
“Credo di sì, ad esempio l’annuncio della FIFA di voler dare vita a un’agenzia contro gli abusi è un segnale molto forte. Anche altri soggetti di primo piano, come FIGC e FC Internazionale, hanno preso iniziative importanti. Nel mondo della pallavolo, il Vero Volley ha adottato una serie di protocolli fondamentali, tra cui quello del doppio coach, perché adolescenti, donne e minori si sentano al sicuro. Ci si sta rendendo conto che la formazione di tecnici, coach e dirigenti su temi come il linguaggio e l’approccio al minore è un tema essenziale per prevenire le violenze; al di là dei casi più gravi, anche linguaggi sbagliati o inappropriati possono avere effetti negativi“.
Su cosa, invece, bisogna cambiare registro?
“La lotta più difficile è sul fronte delle regole, che stiamo cercando di cambiare. Chiediamo ad esempio l’obbligo per le associazioni sportive di richiedere ai collaboratori il certificato penale; che i tesserati radiati non possano più tesserarsi in altre Federazioni, com’è oggi, che vengano sottoposti a un percorso di recupero, che venga stilata una blacklist. Ma non è facile. Si ha l’impressione che lo sport sia rimasto indietro rispetto alla sensibilità sociale che ormai si sta affermando nel paese e nel mondo. C’è la paura di perdere tesserati, ma in realtà far sentire sicure le famiglie è più efficace che minimizzare e negare. Alcune Federazioni hanno già capito che stare dalla parte delle famiglie aiuta“.
Al di là dei rapporti con le istituzioni, però, anche i singoli e il movimento di base sono chiamati ad affrontare il problema…
“È importante raggiungere tecnici e dirigenti, ma anche il coinvolgimento di atleti e genitori è essenziale: noi abbiamo cercato di farlo con il manuale ChangeTheGame, destinato proprio alle famiglie. Se da una parte le istituzioni scolastiche hanno il dovere di essere una comunità trasparente e educante, dall’altra anche i genitori devono lavorare in questo senso. Il primo passo da fare è evitare l’agonismo esasperato: lo sport non può essere solo vittoria e finalizzazione, è anche spirito di squadra, lavorare insieme, fortificarsi mentalmente, superare la sconfitta e l’errore. La drammatizzazione del momento agonistico è foriera di tante altre storture“.
Anche i media hanno un loro ruolo in questo senso?
“Certo, il problema viene da lontano, perché lo sport spesso viene rappresentato come vittoria. Ci sono anche aspetti di umanità, ne abbiamo visti tanti nei recenti Europei di calcio, come il soccorso del capitano della Danimarca a Eriksen o l’abbraccio tra Vialli e Mancini. La cultura della vittoria esasperata finisce per esasperare anche i rapporti tra tecnico e atleta, si è disposti ad andare oltre il lecito pur di vincere, o anche solo pur di essere selezionati. Senza essere troppo retorici, l’obiettivo è tornare a uno sport a misura di bambino, in cui si può essere felici al di là delle vittorie e delle sconfitte: non tutti possono diventare campioni, ma tutti possono essere brave persone“.
Dopo il libro, quali sono i prossimi progetti per il futuro?
“Innanzitutto sono stati ceduti i diritti cinematografici e televisivi sul libro, quindi speriamo di avere degli sviluppi in questo senso. Nel frattempo, a dicembre uscirà sulle principali piattaforme il podcast ‘No coach’, in cui parleranno direttamente i ragazzi che hanno subito abusi e i loro genitori. Poi stiamo lavorando a una pubblicazione per bambini dagli 8 ai 10 anni, la prima di tre per diverse fasce di età, che mira a dare ai ragazzi ‘le parole del dirlo’: una storia semplice, con tavole disegnate da Marco Rovelli, per spiegare in modo leggero cosa si può e non si può fare. Infine abbiamo vinto un bando del Ministero della Famiglia con il progetto ‘Giochiamo d’anticipo’ per prevenire la violenza nello sport, insieme al CIPM (Centro Italiano per la Promozione della Mediazione) di Paolo Giulini“.