Diego Schwartzman è lentamente scomparso dai radar del grande tennis. Dopo anni di eccellenti risultati con vittorie di prestigio (ricordiamo quella su Nadal a Roma, per citarne una), il 31enne argentino è entrato in una crisi profonda che l’ha fatto scivolare addirittura fuori dalla top100 ATP. Quest’anno si è visto gli Australian Open da casa, dopo aver perso da Kudla al primo turno delle qualificazioni. Davvero uno smacco per un giocatore ancora sano dal punto di vista fisico e che solo due anni fa era a ridosso della top10, dopo esserci entrato nel 2020 (best di n.8). Tutto è iniziato nell’estate del 2022, quando da n.15 in classifica inanellò una serie di brutti risultati dopo Wimbledon, terminando quell’annata davvero male, 7 sconfitte di fila dopo US Open. In un’intervista raccontava di non aver cambiato praticamente niente nel suo tennis o routine di allenamento, ma una volta in partita il suo gioco non andava, spuntato in efficacia e intensità, esattamente i suoi marchi di fabbrica.
Quando era al top, in campo sembrava un motorino instancabile, pronto ad aggredire ogni palla con velocità di piedi micidiale. Per sconfiggerlo dovevi sudare, tanto, non regalava mai niente a nessuno. Purtroppo la tendenza non si è invertita nel 2023, anno di risultati davvero modesti, che l’hanno portato anche a separarsi dal suo coach Chela. Con l’avvio della mini stagione su terra in America Latina, Diego è stato intervistato dal collega Jose Luis Domínguez sulle colonne del quotidiano di Buenos Aires La Nacion. Una bella intervista, a cuore aperto, nella quale Schwartzman non lesina critiche a se stesso, ma nemmeno all’ATP. Per l’argentino non c’è grande interesse nel rilanciare i tornei in Sud America, il focus ormai sono i mercati più ricchi ed emergenti. In attesa di vederlo in campo al Cordoba Open, dove debutta oggi contro Roman Burruchaga, figlio del campione del mondo di calcio con l’albiceleste a Mexico 86, riportiamo alcuni passaggi del pensiero di Diego.
“Sto vivendo un momento particolare” racconta Schwartzman. “Da un lato sto imparando a godermi tutto ciò che sono riuscito a realizzare senza averlo immaginato. In molti momenti della mia carriera mi sono convinto che avrei potuto realizzare delle cose e che avrei potuto farle molto bene, ma non ero riuscito a godermi tutto ciò. È qualcosa di molto personale, penso che accada alla maggior parte degli atleti, che nel turbinio dello sport e della vita di tutti i giorni, diventa difficile fermarsi, godersi i traguardi raggiunti e ripensare da dove si proviene. Ora sono in un momento in cui mi sto godendo molte delle cose che ho grazie al tennis, giorno dopo giorno con le persone che mi circondano. Nello sport sta accadendo il contrario: è un momento complicato, sto vincendo poche partite, sentendomi più insicuro in campo, non mi accadeva da tanti anni. Penso che siano processi normali, in un’età in cui cominci ad avere tutte quelle analisi dentro la testa e cerchi di prendere altre strade. Sono più o meno a quel punto della mia vita”.
Più pressione oggi o quando era top10? “Né più, né meno. Entro in campo e se perdo è una pugnalata. Non la prendo diversamente né per come sono andate le cose negli anni precedenti, né per la mia età, né per quello che posso avere al di fuori del tennis. Ti direi anche che fa più male, perché l’anno scorso ho fatto molte più cose di quelle che avevo fatto per uscire da un periodo negativo ed è stato il contrario, ogni giorno mi costava un po’ di più. Ma, al tempo stesso, ho sempre ben chiaro che lo sforzo che io e la mia squadra stiamo facendo è sempre al limite, cercando il modo migliore per uscire da un brutto momento. Oggi mi fa ancora male perdere e mi godo la vittoria come prima”.
Molto sincere le parole dell’argentino relative alla competizione, alla classifica, al livello di gioco: “La classifica non mente mai, tanto meno nel tennis per come è fatta, il che è abbastanza crudele. Non mente. Se vinci le partite, sali; se perdi, torni indietro; se ti infortuni, vai indietro. L’unico modo per salire è vincere le partite. E possono dirmi: eri 8 al mondo, eri questo, eri quello. E adesso sono sotto al n.100 perché è la classifica che mi merito. Questo mi è sempre stato molto chiaro, motivo per cui non mi ha influenzato molto”.
Realista, ma non pessimista, Diego ha voglia di riprendersi: “Ho sempre vissuto la mia carriera come un lavoro. Se sono in un brutto momento, cosa faccio, smetto? No, non ho intenzione di smettere. L’errore che avrei potuto fare era quello di lasciare quel che avevo sempre fatto. Faccio già molto e volevo fare di più. E questo, quando entri in un periodo negativo, non ti permette di pensare o analizzare le ragioni di ogni momento. Ed era la prima volta che mi succedeva in sei o sette anni. È stata un’esperienza di apprendimento. Ho iniziato a giocare più di quanto avessi giocato, per rompere gli schemi, per uscire dallo schema che avevo. Quando ho avuto di nuovo un calendario fisso, negli ultimi tre o quattro mesi dell’anno scorso, e mi sono organizzato senza pensare se vincevo o perdevo, dove avevo le mie settimane per allenarmi bene e prepararmi, è stato allora che le cose sono andate meglio. Sono sempre stato un giocatore che non si salva grazie a un servizio, non mi salva un colpo vincente, io ho bisogno di tre o quattro cose che funzionano assieme, e di essere ben allenato e ben preparato“.
Nella parte finale dell’intervista, Diego parla dei tornei, dei soldi e delle difficoltà di chi non è tra i top player, di quello che a suo dire potrebbero fare i tornei e l’ATP per migliorare la vita dei professionisti. Schwartzman ripete più volte che un giocatore al 100 del mondo è un grandissimo professionista, il centesimo miglior atleta di uno sport globale, e per questo si meriterebbe di più rispetto a quello che ottiene, non solo come denaro ma anche come aiuti e attenzione. “Il tennis è uno sport, in termini di regole e condizioni, in cui tutti devono avere una prospettiva diversa. Alcuni credono che ci siano meno opportunità per chi è ai primi passi sul tour ATP, per altri è un bene per promuovere solo i tornei più grandi. Ciò con cui non sono completamente d’accordo sono gli standard del tennis. C’è molto margine di miglioramento. Dove? Parlo di quello che il torneo deve dare al di là della parte economica. I tornei si concentrano sul pagamento di buoni premi in denaro, poi vediamo come risolvere tutto il resto. Ed è qui che il servizio ai giocatori potrebbe migliorare. Cosa? Intanto le strutture, come e dove allenarsi, i pasti. È secondario per un giocatore che è tra i primi 30 o 40? Sì, nessuno di loro avrà problemi a pagare un pasto in più, una stanza in più, un giorno in più. Ora, chi è un passo più indietro, chi entra per la prima volta nella Top 100, deve pensare se può viaggiare con un preparatore atletico, se viaggia con un fisioterapista, se viaggia in buona compagnia, perché il torneo non li aiuterà in nessun tipo di struttura per la sua squadra, mi sembra una follia. Chiunque sia all’80°, 90° o 150° posto e abbia l’opportunità di giocare tornei più grandi, dovrebbe avere gli strumenti per svolgere bene il proprio lavoro. E stiamo parlando di uno sport in cui sono presenti i migliori dell’élite. È qui che c’è molto margine di miglioramento. Poi entri nell’economia di ogni torneo, qualcosa che molti di noi non conoscono e ogni torneo è particolare. Ma secondo questi standard, per i giocatori di seconda o terza linea, i tornei hanno spazio per aiutarli molto di più, è lì che dovrebbero crescere”.
“Il mondo arabo nel tennis? Guarda, questo è un altro punto. All’ATP interessa poco, o non presta attenzione, al tour sudamericano, il tour sulla terra. L’ATP non concede molte agevolazioni quando Buenos Aires cerca di diventare un torneo 500, per migliorare. È come se ci fossimo dimenticati del mondo in questo senso, ma accade perché compaiano altre regioni con tanti soldi, senza nominare nessuno in particolare. Penso che sia un bene per tutti. Non vedrò mai nulla di negativo nel generare tornei e possibilità. Successivamente ogni giocatore sceglierà cosa fare, se andarci o preferire un altro tour, se preferire la parte economica o quella competitiva. Quando ci sono più possibilità sono situazioni positive per i giocatori, a prescindere dalla regione, ma è indubbio che si faccia poco per il tour in Sud America” conclude Diego.
Tanti temi, e parole che trasmettono dolore e passione. Quella che ha spinto un ragazzo minuto, senza soldi, senza un team forte, senza aiuti esterni, a scalare montagne per cavalcare il suo sogno, diventare un buon professionista. Vendeva collanine di plastica con la madre per racimolare qualche soldo per allenarsi. È stato gran viaggio quello di Schwartzman, gli auguriamo di godersi ancora la propria passione per il tennis. Nonostante tutto.
Marco Mazzoni