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Open Court: US Open, tra problemi fisici e le fiammate di Taylor Townsend (di Marco Mazzoni)

Djokovic, campione in carica e n.1 del ranking, si ritira per un problema alla spalla.Daniil Medvedev “litiga” con il pubblico della grande mela e vince soffrendo imbottendosi di antidolorifici per problemi alla spalla. Coric si ritira senza nemmeno giocare vs. Dimitrov, come il “povero” Kokkinakis vs. Nadal. Il nostro Fognini è sempre in balia del suo problema alla caviglia. Tsitsipas ha perso all’esordio mostrando una condizione fisica approssimativa, come l’altro giovanissimo Auger Aliassime, dominato all’esordio da uno Shapovalov versione “top10”. Anche Dominic Thiem è arrivato a NY “sulle gambe”, provato dal suo tennis dispendioso, idem Bautista Agut. Stesso film per Karen Khachanov, sconfitto al primo turno dopo una battaglia, ma senza esplodere la sua devastante potenza. Questi sono solo alcuni dei giocatori che hanno preso parte a US Open con una condizione atletica incerta, provati dagli otto intensi mesi di tornei sul tour, con infortuni pregressi o accusati nel torneo.

Oggi gli ultimi ottavi di finale, con il campo il nostro Matteo Berrettini, decreteranno gli altri due quarti di finale. Nadal e Monfils nettamente favoriti, Zverev dovrà lottare assai per superare la vis pugnandi ed intensità del “peque” Schwartzman; Matteo parte con un pronostico sfavorevole (anche per i bookmakers), è un match assolutamente da giocare, molto aperto, anche se sembra più stanco di Rublev.

Stanchezza. Infortuni. Non è affatto una novità, ma più che la stagione avanza, più il fattore fisico diventa decisivo/determinante per le sorti dei grandi tornei. US Open è da sempre uno dei tornei più tosti, per il momento dell’anno in cui si disputa, per le condizioni spesso complesse di NYC, per mille altri fattori, inclusi quel vortice tutto yankee che stressa non poco la mente dei giocatori. Alla fine, nonostante un Federer in discreta ripresa (ma attenzione: ha incontrato rivali assai “giusti” per esaltare il suo braccio…), Nadal sembra strafavorito e lanciatissimo per vincere di nuovo il quarto Slam stagionale. Buonissimo tabellone e condizione fisica straripante per “el toro”, sta macinando tutti i rivali con il suo solito tennis solido, arrotato, aggressivo, efficace, incontenibile. Sembra difficile che qualcuno “di sotto” possa sbarrargli la strada verso la finale. Un nuovo “Fedal”? Chissà… Dopo Wimbledon, potrebbe essere un’altra grande partita, tra l’altro inedita a Flushing Meadows! Ma è presto per queste considerazioni.

Quel che vorrei sottolineare, ancora una volta, è come questo torneo nello specifico ed il nostro sport in generale sia sempre più deciso dalla componente atletica. È sport, quindi è indubbio che la condizione fisica sia importante. Ma se mettiamo sulla bilancia gli aspetti base del gioco (tecnica, testa/tattica, fisico), la parte atletica è ormai troppo decisiva e predominante. Non credo sia una bella notizia per il tennis. Niente contro i giocatori “fisici”, riescono ad alzare l’adrenalina per il pubblico con scambi mozzafiato, agonismo, lotte infernali ed a suo modo elettrizzanti. Ma… è giusto che uno sport complesso come il nostro, nato come disciplina di destrezza ed assai vario, sia così sbilanciato su una sola delle sue basi? Oltretutto la situazione generale sta diventando una sorta di circolo vizioso. Si gioca troppo per i giocatori → che però hanno voluto condizioni di gioco piuttosto omogenee per non subire troppi sbalzi nella stagione → la tecnica/tattica di gioco si è adattata a condizioni similari e molto lente, producendo un tennis sempre più di scambio e duro per il corpo → si gioca troppo intenso e con scambi massacranti → molti infortuni. Il paradosso è che per “preservare gli atleti”, si è creato un gioco che stressa troppo l’atleta, portando più infortuni e quindi producendo l’effetto opposto a quello desiderato.

Inoltre sul piano meramente spettacolare, un tennis predominante sul piano muscolare ha finito per far diventare troppi match “piatti”, monocorde. Noiosi.

Questa considerazione, ormai condivisa da molti osservatori, è esplosa sui media e social anche grazie a Taylor Townsend. La 23enne di Chicago è diventata la vera “stella” del torneo 2019 per il pubblico. Stanotte si giocherà l’accesso ai quarti affrontando la talentuosa Andreescu, ma a suo modo Taylor ha già vinto. Grazie al suo tennis spregiudicato, basato su di un serve and volley totale, rischioso e funambolico, ha letteralmente infiammato gli appassionati. Con tocchi in back, volee acrobatiche, attacchi insistiti anche sulle seconde di servizio e risposte a tutto braccio, ha risvegliato gli appassionati da un torpore secolare imposto da un paio di lustri di tennis anchilosato su scambi lunghi, rincorse, toppate e bracci di ferro. Vederla in campo è stato un elettrochoc, un riscoprire quanto era diverso il tennis una volta, e quanto spettacolo possa regalare una condotta di gioco davvero offensiva e proiettata a rete.

Questa considerazione non è un attacco ai giocatori che spingono in pressione da fondo campo. Tutt’altro. È un attacco a chi negli anni ha avallato lo spostamento delle condizioni di gioco verso una lentezza ed uniformità che ha finito per penalizzare troppo chi propone un tennis “diverso”, più offensivo. Un tennis tra l’altro che porta i giocatori a scambiare di meno → a consumare meno muscoli e tendini → a giocare match più brevi anche se intensi → a farsi meno male. E produrre pure match assai più vari ed interessanti.

US Open probabilmente sarà vinto dal tennista “più forte”, in tutti i sensi. Soprattutto più forte sul piano atletico, più in forma fisicamente. Non c’è niente di male. Ma siamo sicuri che questo staus quo sia sostenibile nel lungo periodo? Che un tennis “bloccato” sulla lentezza e durezza attuale finisca per allontanare il potenziale nuovo pubblico, più giovane, più interessato ad una disciplina più veloce ed elettrizzante?

Marco Mazzoni

@marcomazz


Fonte: http://feed.livetennis.it/livetennis/


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