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    Menicali: “Cosa ha di speciale Cagliari? Il fattore CUS. Vi spiego in cosa consiste”

    Cosa spinge un ragazzo nato a Moncalieri, cresciuto in B1 a Biella, dove tra le altre cose incrocia il suo allenatore di questa stagione Lorenzo Simeon, a diventare da anni la bandiera del Cus Cagliari, nonché il capitano e colui che è dietro l’autentico miracolo che si è manifestato ai quarti di finale, quando gli isolani hanno mandato a casa la prima della classe San Donà? 

    È una domanda a cui da anni cerco di dare una risposta semplice, ma in realtà è molto articolata, perché col tempo si aggiungono continuamente dei tasselli utili a spiegarne la genesi. 

    La verità è che non c’è una sola ragione perché Michael Menicali sia diventato così cagliaricentrico, ma una serie di fattori di natura sentimentale, affettiva, personale che lo hanno spinto ad arrivare fino a questo capitolo della storia. Questo capitolo si è concluso con una sconfitta nelle semifinali playoff contro Lagonegro, che non è però il segno di una stagione giocata a bassa quota, quanto la fine di un sogno in cui si è andati davvero più avanti di ogni aspettativa.

    “È finita in un mix di rammarico per non aver continuato sulla scia dei quarti e la consapevolezza di aver fatto più di ciò che ci si aspettava da noi. Lagonegro è stata più forte e più consapevole di dove volesse arrivare, mentre noi abbiamo forse pagato i quarti giocati davvero bene. Dovevamo mantenere quella carica e non siamo riusciti a bissare. Loro hanno avuto il merito di giocare due partite davvero ottime, noi abbiamo il rammarico di aver giocato due primi set, sia all’andata che al ritorno, in cui se avessimo vinto, chissà dove saremo arrivati. Ma con i se e con i ma non si arriva da nessuna parte. Resta la soddisfazione per la stagione che è stata”

    Siete stati la vera sorpresa dei quarti.

    “Venivamo da cinque sconfitte nelle cinque gare precedenti all’inizio dei playoff. Ma il gruppo c’era e c’è sempre stato in tutta la stagione. Abbiamo capito che quel gruppo poteva andare al di là del set o set e mezzo in cui faceva bene o era capace di farlo con qualsiasi squadra e siamo arrivati ai playoff senza la pressione di dover fare risultato, ma con la volontà di far capire dove si poteva arrivare. La prima gara a San Donà è stata una bellissima vittoria ottenuta giocando liberi e ci ha dato una carica enorme. Ho visto i ragazzi ritrovare quelle certezze che nella seconda fase dell’anno avevamo un po’ perso e in gara due siamo riusciti ad amministrare il fattore campo, che dopo tanto tempo è stato bello ritrovare con tanto calore nel nostro palazzetto”

    Lei quando ha cominciato a credere che si poteva ribaltare il pronostico?

    “Al terzo set di gara due. Dentro di me ho provato l’emozione di aver superato uno scoglio e ho pensato che ce l’avremo potuta fare. È così che abbiamo affrontato il quarto set punto a punto e abbiamo staccato San Donà nel finale”

    Il segreto del Cus Cagliari è apparso proprio il fattore Cus. Mi rendo conto sia difficile da spiegare a chi non vive un contesto così. Ma proviamoci.

    “Ne ho parlato con Marinelli, che per me ormai è come un fratello. Viviamo un ambiente in cui nel bene o nel male trascorriamo ore e ore ogni giorno negli impianti, che sono un po’ palestra, un po’ palazzetto, ma anche un po’ un mondo nel quale a fine allenamento o il giovedì diventano uno spazio ricreativo dove bere una birretta e trovarsi con tutti gli atleti di altre discipline. Viviamo una squadra e un gruppo in cui ti senti parte di qualcosa, ti senti di appartenere un progetto. È un modo che ti porta a stare dentro a quel mondo, tra l’altro senza sentire pressioni che in passato mi è capitato di vivere in altri ambienti”

    Menicali, Marinelli e Gozzo come zoccolo duro. Insieme ad un gruppo di giovani molto promettenti, tra cui Biasotto e Rascato.

    “Gara due l’abbiamo giocato tutti con il sangue negli occhi. Morgan psicologicamente ha retto molto bene, lo stesso anche Ciardo, ma in generale tutta la squadra. Rascato è il risultato di chi si sta allenando veramente molto bene e poi in campo riesce a dare tutto. Con Marinelli, ripeto, c’è un rapporto di fratellanza e spero di ritrovarci nella stessa squadra ancora per molto tempo. Gozzo è arrivato quest’anno ed è stato una bella scoperta”

    Simeon?

    “Con Lollo avevo giocato già in B a Biella. Lui e Alessio Marotto sono riusciti a tenere la squadra anche quando non riuscivamo a girare come all’inizio e va il merito di essere stati capaci di lavorare sulle nostre fragilità”

    Il prossimo anno quanta voglia c’è di rimanere al Cus Cagliari?

    “Ci sono buone possibilità che ciò avvenga. Per me ormai è casa. Ho comprato anche casa a Quartu Sant’Elena, vicino Cagliari, quindi la voglia di restare c’è tutta”

    L’estate nel mondo del beach con Balsamo è confermata?

    “Assolutamente sì, anche se scherzando gli ho detto di non venire a gufarmi ai quarti e in semifinale per poter cominciare prima a pensare alle tappe. Però scherzi a parte, ci ritroveremo e vorremo riuscire a giocare il campionato italiano, almeno per qualche tentativo di qualifica”

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    Andrea Baldi, figlio di Giorgio: “Volevo fare calcio. Per fortuna ho ascoltato mio padre”

    Lo vedo festeggiare settimane fa per la Coppa Italia. Lo rivedo alzare la Supercoppa, buttarsi per terra in mezzo ai lustrini del palazzetto dopo aver battuto in una finale senza storia quel San Donà che avevano battuto 3-0 solo un mese fa nella prima battaglia e festeggiare. Lo guardo e penso a quanto suo padre Giorgio sia fiero di lui, e quanto, se fosse toccato a lui, avrebbe gioito e fatto meno rumore, perché se sei il Baldi del 1994, e stai scrivendo un pezzo della storia della pallavolo sarda e di un paese come Sant’Antioco, lo fai con l’aria algida di chi ha eseguito i compiti alla perfezione, ma il carattere così austero e l’aria impenetrabile ti impediscono la ricreazione. Invece Andrea Baldi, ventuno anni dopo è ciò che ero io quando appena dodicenne, andavo a squarciagolare per suo papà che era un mostro di bravura. Andrea ha gli occhi di papà, ma ha la mia stessa visione del mondo, ossia quella di chi deve godere di ogni ‘frame’ della sua vita, caricare il fiato di tutta l’aria che ha a disposizione e urlare ai quattro venti o controvento. 

    In una Romeo Sorrento di cui non si può non scrivere bene, piena di storie che fanno la storia di questa stagione, Andrea è una perla rara che si conquista anche rischiando di farlo arrossire, quando lo si riempie di complimenti a cui forse uno come lui non si abituerà mai, o raccontando ciò che si vede fuori dal campo, quando finalmente questo venticinquenne alla sua quarta stagione in serie A ha messo in valigia una finale playoff con Bergamo e una stagione in Superlega con Catania, prima di approdare nella Romeo in cui tutte le ciambelle sembrano uscire col buco e con la glassa.

    “Non posso che essere estremamente felice per l’anno che sto disputando, che stiamo disputando tutti qui a Sorrento. Abbiamo fatto davvero delle buone partite, nelle quali ho potuto giocare e nelle quali dimostrare a che punto del mio percorso sono arrivato dopo questi anni. Io non ho molti anni di carriera alle spalle, ho cominciato relativamente tardi con la pallavolo e ogni tanto ho come l’impressione di essere più indietro rispetto a tutti i miei coetanei, perché ho meno esperienza”

    Perché ha cominciato così tardi?

    “Giocavo a calcio, ed ero un giocatore diciamo accettabile. Avevo cominciato col volley a Brescia, poi non ne avevo più voluto sapere, finché con papà ho ragionato della possibilità di ripartire da Bergamo. È stata una scommessa vinta, ho ascoltato i consigli di mio padre e ho accettato il fatto che avesse ragione”

    Suo padre è un giocatore al quale io da tifoso e da isolano sono molto legato (Giorgio Baldi n.d.r., ex centrale fra gli altri di Gabeca e Banca di Sassari). Che ingombro significa avere un papà così severo, ma così lungimirante?

    “Io ho un bellissimo rapporto con lui. Quando ero un po’ più giovane ho avuto i classici confronti tra un figlio che vorrebbe fare un po’ ciò che gli pare o almeno ciò che sulla sua carta sembra più corretto e un padre che conosce molto bene questo mondo e voleva giustamente guidarmi nelle scelte. Ripeto, col tempo ha avuto ragione lui. Mi ha sempre detto che avrei dovuto cominciare prima e che mi sono perso degli anni. Io rispondo guardando il bicchiere mezzo pieno, ovvero che la mia figura fisica ha risparmiato stagioni di stress e sofferenza. Sono un prodotto più nuovo di altri (ride n.d.r.)”

    Un anno in cui su due trofei in palio, lei li ha vinti entrambi. 

    “Quest’estate ho avuto molto tempo per pensare, dato che da marzo ero a casa a lavorare sulla parte fisica e tecnica. Ho avuto l’ambizione di capire cosa fosse meglio per me, di fare una scelta se vogliamo coraggiosa, ossia di scendere in A3 e giocare, mettermi alla prova. Ho parlato con il Presidente Ruggiero e mi ha presentato questo bellissimo progetto. Ho fatto di più, sono andato a Sorrento in vacanza e ho voluto capire che possibilità darmi. Per ora è una bellissima scommessa vinta. Faccio una vita che è il sogno di molti e sono qui tra i protagonisti di un’annata perfetta con un gruppo bellissimo”

    Siamo alla semifinale promozione. Sorrento e Altotevere sono in parità. Decisiva gara tre.

    “Ora arriva il momento di dare il tutto per tutto nella partita ipoteticamente più significativa di questa stagione. Sicuramente le coppe sono grandi obiettivi, ma arrivare in fondo ai play-off conta ancora di più. Domenica è stata sicuramente una partita complicata e ci siamo scontrati contro un avversario tosto, come già prevedevamo e come già abbiamo avuto modo di constatare domenica scorsa”. 

    “Fortunatamente mercoledì torneremo ad avere il fattore casa a nostro vantaggio e dovremo assolutamente far uscire di nuovo la Romeo Sorrento che siamo sempre stati, consapevoli delle nostre qualità, ma soprattutto uniti nei momenti complicati. Nessuno di noi ha intenzione di tornare a casa prima del previsto”

    Il gruppo della Romeo. È tutto?

    “Ogni giorno quando entri in palestra, capisci che tutti, dallo staff ai giocatori, lo facciamo perché è l’unica cosa che vogliamo fare davvero. C’è tanta volontà, passione ed entusiasmo. Certo, i successi aiutano, ma quest’aria io l’ho respirata dal primo giorno”

    Quindi guardando indietro a Catania in A1 o a Bergamo in A2, nessun rimpianto di non essere lì?

    “Assolutamente no. Volevo fare un anno completamente fuori, lontano dalle mie certezze. Le esperienze in Superlega e a Bergamo sono state positivissime e altamente formative, ma da Sorrento volevo cose diverse. Sono rimasto colpito dall’atteggiamento, dalle loro serietà, dal divertimento che provo ogni giorno e dalla serenità che tutti abbiamo anche in questo momento della stagione”

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    Gabriele Di Martino: la saggezza del lupo di mare, le virtù del giocatore

    Il percorso di vita e di sport che lo attornia è caratterizzato da una fortissima autoanalisi, da una nettissima consapevolezza di chi è arrivato ad essere a ventisette anni e di chi riuscirà ad essere nei prossimi anni. Gabriele Di Martino è una forza più del pensiero che della natura, e i suoi ultimi anni, ossia quelli trascorsi ad incarnare i valori del Vero Volley, lo raccontano in tutte le sue riflessioni, in tutto il suo io interiore ed esteriore. 

    È stata una stagione difficile quella del centrale di Monza, nella quale alla fine della storia è emerso ciò che di Gabriele si è detto nelle prime righe, ossia un concentrato di energia e di responsabilità, fattore che lo ha portato a chiudere l’ultima gara, quella fondamentale ai fini della salvezza con l’85% in attacco (e il muro finale, punto della salvezza). Un numero che racconta non tanto il suo anno, ma la sua maturità agonistica, dove non contano solo il risultato ma anche il modo in cui lo stesso si ottiene.

    “Quello al Vero Volley è stato un percorso lungo tre anni, caratterizzato dai rapporti umani che si sono fortificati soprattutto nel corso della scorsa stagione, a mio avviso la più bella, la più importante”.

    Le auguro altre stagioni così. Anche se l’idea che resterà una stagione magica per tanto tempo e per tutti è doverosa esprimerla.

    “Sì, concordo. Penso ad un amico come Galassi, compagno di ruolo con il quale spesse volte ci siamo confrontati su ciò che abbiamo vissuto assieme. Io analizzo molto il passato perché penso che sia utile anche in chiave futura. Penso all’intensità delle ultime settimane dello scorso anno, al palazzetto pienissimo in ogni ordine di posto o a come siamo riusciti ad arrivare fino alla finale scudetto”.

    Il ricordo che l’ha più colpita?

    “Una mamma che si avvicina con la figlia a fine partita e che quando doveva parlare è scoppiata a piangere dall’emozione. È un momento che mi ha toccato molto e ho provato anche a cercarle dopo la fine della partita per regalarle una maglia. Sono momenti in cui capisci la forza dello sport, ma anche quali emozioni ti genera una gara, nonostante tu non la stia vivendo dal campo, ma dagli spalti. È una responsabilità per noi esprimerci al meglio ed in quel modo, anche perché loro sono lì per noi”.

    Non posso non chiederle che anno è stato quello appena trascorso.

    “Difficile. Molti dello scorso anno non li ho più ritrovati in spogliatoio e, sebbene so che è fisiologico il cambio di squadra e gli arrivederci nel nostro mondo, mi è mancata molto quella condivisione che avevo con Galassi o Maar, ad esempio. Persone diverse, penso a Gianluca che arriva dalla montagna, lo dico sempre scherzando, mentre io arrivo dal mare, eppure c’è sempre stata una grande apertura tra di noi. È mancata la comunicazione, credo, e in tante occasioni avrei voluto essere più preso in considerazione per giocare, sono onesto”.

    Cosa è rimasto del ragazzino dell’Appio Roma Volley?

    “L’impegno. Ero molto giovane quando ho cominciato a giocare con loro e passai subito all’MRoma, dove trovai anche Zaytsev che giocava in prima squadra. Sono state delle belle palestre di vita, e per uno che ha sempre avuto anche altre cose, vedersi con 25 cm di altezza in più in un anno, ha cambiato le prospettive e ha aumentato la voglia di ambire a far diventare questo sport un lavoro. Anni fa ho scelto, dopo il Nautico, di fare Economia, ed ora studio Management dello Sport, perché mi piacerebbe occuparmi di pallavolo e di Europa”.

    Cosa intende?

    “Sono un europeista. Mi piacerebbe poter giocare il secondo tempo della mia carriera ad occuparmi di consulenza in ambito sportivo. Magari portare l’Europa in Italia e integrarla con maggior impatto sia nei club che nelle scuole. Al Vero Volley ho respirato subito una bellissima aria di innovazione e sotto questo aspetto, è stata ancora di più una spinta cercare di entrare più a fondo nel mondo dello sport”.

    C’è tanta famiglia nelle sue parole.

    “Mamma professoressa di informatica, papà consulente ora in pensione. La famiglia mi ha dato degli input e fatto capire che il volley lo devo vivere come un gioco. Una parte della mia vita resta il volley, il resto è altro. Ho trovato un ottimo equilibrio”.

    Per quello ha vissuto bene anche il tema della nazionale.

    “Resta un regalo. Ma resta anche qualcosa che è arrivata meritatamente. Credo che per me sia bello così. La mia esperienza è arrivata non per la seniority, ma per i risultati che sono arrivati dal campo e questo per me è motivo di orgoglio”.

    Continuerebbe anche se non è stata la miglior stagione dal punto di vista dei risultati?

    “Spero che valga anche ciò che portiamo a livello di contenuto e a ciò che possiamo dare a quella maglia azzurra. Ovviamente mi piacerebbe perché ritroverei anche compagni di ruolo che stimo parecchio, ovvero oltre Galassi anche Russo”.

    Prossimo anno dove sarà Di Martino?

    “Per ora mi troverà in barca a vela. Il resto è in via di definizione”.

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    Stephen Maar tra passato, futuro, famiglia (si sposa) e Trento: “L’avversaria peggiore, ma…”

    Prendi un ragazzo di 22 anni che arriva in Italia, a Padova, direttamente dal Canada. Capisci subito che ha un’energia speciale, fatta più di quello che non è ancora, ma che saltuariamente ti mostra in campo, che di quello che poi sarà il suo vissuto negli anni successivi. Questo ragazzo fa un percorso, articolato tra alcune delle piazze più importanti della Superlega, parliamo di Verona, Milano, Cisterna. Arriva a Monza, gioca dei playoff meravigliosi, tra esplosioni di gioia, rabbia agonistica, palloni che pensi possano saltare per aria e un tormento interiore, che è la sua cifra. 

    L’arrivo a Piacenza di Stephen Maar è forse l’ultima fase di questa evoluzione complessa, durata otto anni (per la parentesi russa alla Dinamo Mosca ci arriviamo) e nella quale lo schiacciatore oggi tira qualche somma, un po’ perché a trent’anni tutto appare più chiaro, tutto prende una forma diversa, e forse perché si è pronti per essere ciò che veramente si vuole essere da grandi, con o senza la pallavolo davanti:

    “Ho trovato la mia tranquillità, il mio mondo. Per tanti anni sono andato avanti, girando il mondo e vivendo anni molto intensamente. Per la prima volta quest’anno la mia famiglia avrà la priorità rispetto a tutto e in estate voglio spendere un po’ di tempo assieme a loro”.

    Ha annunciato il matrimonio con la sua compagna Molly Lohman, pallavolista, solo qualche settimana fa. Vi sposerete in Italia?

    “Le ho chiesto di sposarci in un pomeriggio sul Lago di Garda. Ma per ora non abbiamo i dettagli precisi anche perché dobbiamo incrociare le agende e i programmi. Adesso che mi fa pensare, sarebbe proprio bello se ci sposassimo in Italia (ride n.d.r.)”.

    Anche perché l’Italia è stata la sua fortuna Maar. Ma anche per noi averla nel campionato italiano.

    “Un bel viaggio, lungo otto stagioni, che comprende anche la mia parentesi russa. Ho giocato in tantissime città e ho considerato casa ogni luogo in cui sono stato. Ognuno di quei luoghi mi ha lasciato qualcosa, dalle persone, alle esperienze”.

    Quella che ricorda per un motivo particolare?

    “Credo Cisterna. È stato un anno molto particolare, dopo Milano e prima della proposta di Monza, dove poi ho trascorso tre anni della mia vita. Era un contesto molto piccolo, una città molto vivibile e una squadra capitanata da Fabio Soli e da uno staff, ricordo su tutti Gioele Rosellini, con cui ho lavorato molto bene. La pallavolo era seguitissima ed è stata la prima volta in Italia in cui le persone con cui avevo a che fare nella quotidianità, parlo magari del panettiere o dei ragazzi o ragazze che trovavo al supermercato, poi le ritrovavo sugli spalti a tifare la domenica”.

    Si ricorda il Maar di Padova invece? Arrivato con tante novità a Padova? 

    “Ricordo una squadra completamente nuova, che fece un inizio di campionato incredibile. Peccato perché poi ci siamo persi durante l’anno. Ma ripeto, la casa per me è ovunque in Italia”.

    Ora la casa è Piacenza. Un anno che è stato letteralmente una montagna russa.

    “Un anno in cui questo weekend cominceremo un importante semifinale contro Trento, e a cui teniamo davvero molto”.

    Dall’arrivo di Travica, Piacenza sembra avere una luce nuova.

    “Ogni cambio porta con sé uno scossone, o meglio, una reazione. Il periodo di difficoltà precedente ci ha fatto riflettere e c’è stata come pensavo e dicevo una reazione da parte di tutti. Ora tutti ci crediamo un po’ di più. Certo, Trento è l’avversaria che nessuno vorrebbe ritrovare in semifinale, anche perché è stata la migliore della regular season. Io ora non penso più a chi mi ritroverò di fronte, ma a come lo affronterò”.

    foto Gas Sales Bluenergy Piacenza

    La affronterà, mi permetto di dire in una condizione mentale diversa.

    “Cosa intende?”

    La rivedo in campo con una serenità che non conoscevo.

    “Sì, è un bel momento della mia vita”.

    Stephen Maar pensava di arrivare fino a qui quando studiava alla McMaster University?

    “Non pensavo di avere fino a qui. Ho tanta gratitudine per tutti coloro che mi hanno permesso di fare un percorso, la mia strada. Ho studiato, ho aperto la mente a tutto ciò che mi è stato insegnato e ritrovarmi oggi a questo punto mi rende davvero orgoglioso”.

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    Flavio Morazzini, libero… di sognare: “Sono un grande agonista in campo, ma anche fuori”

    La benedizione l’ha ricevuta direttamente da uno come Simone Di Tommaso, suo allenatore e scopritore di talenti di qualsiasi natura e di qualsiasi disciplina, che a Pineto ha lasciato che Flavio Morazzini sbocciasse in tutta la sua essenza di romanità e in tutto il suo essere romanocentrico. Come è ovvio che fosse, i numeri gli hanno dato ragione e Morazzini figura oggi come uno dei volti più interessanti e ambiziosi della serie A2, in un anno di grazia, nel quale non è tanto il risultato di squadra a contare, quanto ciò che i singoli sono stati in grado di dimostrare. E fra questi Flavio ha certamente la lente di ingrandimento puntata addosso:

    “Sono molto soddisfatto perché è il primo anno in cui mi ritrovo a giocare titolare in serie A. Grazie all’esperienza di Pineto sono riuscito a sciogliermi e ad acquisire quelle certezze con cui ho poi affrontato una stagione che nonostante la regular season terminata ad un passo dai playoff, ci vedrà ancora impegnati con la Coppa Italia in questo finale di stagione”.

    Il rammarico per i playoff c’è?

    “Beh, non è certo una grande delusione anche perché l’obiettivo di inizio anno era la conquista della salvezza, visto il nostro debutto nella serie. È una squadra molto giovane con un bravissimo allenatore al suo primo anno dopo quelli passati ad allenare il beach volley. Credo sia servita a tutti, anche in previsione della prossima stagione, soprattutto per come riuscire a far fruttare l’esperienza e come impostare la squadra in vista del futuro. Tuttavia arrivati ad un certo punto della stagione ci abbiamo creduto, e l’obiettivo è diventato proprio quello di strappare il settimo posto ad Aci Castello. Ma adesso, ripeto, vogliamo mettere la testa e il massimo impegno nella Coppa”.

    Ripartiamo per un attimo dai suoi esordi. Da Villa Gordiani a Roma, dove nasce, a Villa Reale a Monza, dove comincia la sua ascesa. Come ci arriva un pallavolista romano alla corte del Vero Volley?

    “Durante il periodo delle giovanili ho giocato contro Monza, e non ho paura di dirlo, ho fatto davvero una bella partita. Il contatto nacque da lì, e mi ritrovai al Vero Volley, squadra con cui ho trascorso due anni molto belli e nella quale sono stato il secondo libero assieme a Marco Gaggini”.

    Foto Lega Volley Maschile

    Gli esordi sono targati?

    “Fenice Pallavolo Roma. Una bella realtà che mi ha accompagnato fino agli anni della Junior League. Quando ero piccolo, papà mi ha allenato da quando avevo sei anni, ma il primo allenatore che ricordo sempre è stato Giorgio Sardella alla Fenice”.

    L’esperienza di Monza come la cataloghiamo?

    “Al Vero Volley come dicevo eravamo un bellissimo gruppo. Con Gaggini ho lavorato molto bene, per me è sempre stato un punto di riferimento. Lo spogliatoio poi con Beretta ha saputo accogliermi dal primo giorno e il clima, soprattutto per i risultati che sono arrivati, era molto bello”.

    A Pineto si respira la stessa aria.

    “Sì, è un gruppo favoloso. L’aria di inclusione e l’alchimia che si è creata tra di noi sono state palesi sin da subito. Conta tanto forse la giovane età e il fatto che tutti siamo lì per dare il massimo e metterci a disposizione, ma siamo accomunati da tante cose e anche fuori dal campo è una squadra che si trova parecchio”.

    Foto Lega Volley Maschile

    Dicono che lei sia molto competitivo. Un po’ molto romano in questo.

    “(ride n.d.r.) Sono un grande agonista in campo, ma anche fuori. Voglio sempre vincere, e perdere mi fa ancora uno strano effetto. Perciò in campo sono molto passionale, molto verace”.

    Il sogno?

    “Giocare in Superlega, arrivare tra qualche anno ad occupare il posto di titolare nella massima serie e diventare uno dei migliori liberi”.

    Il tecnico Di Tommaso dice che lei diventerà qualcuno.

    “Gli sono grato per l’opportunità che mi sta dando e spero di non deluderlo. Sono ancora all’ultimo anno del Liceo Scientifico Sportivo, ma ho le idee molto chiare sulle mie ambizioni pallavolistiche”.

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    Alex Erati sogna in grande con Brescia: “C’è voglia di far bene”

    C’è un pensiero, che solitamente nel mondo del giornalismo viene accostato al mondo della musica o della letteratura: non lo avevamo visto arrivare. È un modo come un altro per discolparsi o per ovviare al tema della molteplicità delle informazioni che potenzialmente abbiamo a disposizione. Sono onesto, faccio ammenda: io questo Alex Erati non lo avevo visto arrivare.

    Quello della Superlega, o della A2 è un mondo in cui ci si conosce un po’ tutti, le facce che girano da anni sono perlopiù sempre le stesse. Le opinioni, quelle positive o negative sugli atleti e sul loro rendimento, anche. Alex per me è stata la più piacevole delle sorprese di questo 2025. 

    C’era da aspettarselo, dato che, per volontà o per notiziabilità, Erati, dopo un percorso che lo ha portato su e giù per l’Italia, partendo da Segrate e Bergamo (dove incrociò, un nome su tutti, Yuri Romanò), per arrivare alla Puglia e risalire in Veneto, è approdato questa stagione nel gruppo squadra nel quale personalmente avrei voluto compiere almeno una stagione, ossia quello di Brescia. La commistione di genere, nel qual caso, va dal più vecchio e più saggio dei lupi di mare che mi piacciono, Simone Tiberti, passando per colui che a mio parere risulta il giocatore più degno di approdare in Superlega, Roberto Cominetti, per concludere (solo citando chi conosco bene davvero) con persone come Raffaelli e Cavuto, che la serie maggiore meritano di riconquistarla di nuovo.

    Erati è la perla che si stabilisce in tutto questo mare di vecchi lupi e vecchie volpi, e sul quale è corretto subito ammettere che quest’anno è riuscito a ricavarsi lo spazio giusto come monster block d’esperienza, occupando stabilmente le prime posizioni. A ciò si aggiunge la considerazione della Gruppo Consoli Sferc Brescia come assoluta protagonista delle grandi della serie A2, con un gioco espresso in alcune partite di livello non inferiore ad alcune compagini che stanno più in alto, ma a livello di serie e non di classifica, dove i tucani hanno concluso al secondo posto della regular season ed ora stanno affrontando Aci Castello nei quarti di finale dei playoff. Serie iniziata subito con una vittoria per 3-0.

    “Un anno in cui il seguito non ci manca, i tifosi arrivano copiosi anche a seguirci in trasferta. L’atmosfera è molto bella e facciamo di tutto per poter ripagare l’affetto che riceviamo in questa piazza. Qualche défaillance è capitata e fa parte di una stagione all’interno di un campionato molto duro, molto più degli ultimi anni e nel quale domina l’incertezza. Le previsioni che avevamo letto all’inizio della stagione non sono state certamente rispettate appieno”.

    Non avevamo previsto nemmeno che lei terminasse la regular season come uno dei due migliori muratori della serie A2.

    “A muro è andata davvero bene e sono soddisfatto dei numeri, anche se spero che con i playoff io possa portarne a casa di migliori. In attacco vorrei migliorarmi. Non sono pienamente soddisfatto dei numeri della stagione in corso. Spero di avere la possibilità di alzare l’asticella da qui alla fine”.

    Mi dica la verità: lei pensa che sia l’anno giusto, vero?

    “(ride n.d.r.) Per la Superlega? Beh, sarebbe un sogno. Arrivare al primo posto in regular season potrebbe darti un vantaggio con il fattore campo a tuo favore, anche se contribuirai a scrivere un pezzo di stagione completamente nuovo. Dalla nostra parte abbiamo che le condizioni fisiche di tutti stanno ritornando a garantirci una continuità più assidua in tutti i reparti e affrontare i playoff con una Brescia completa in tutti i reparti è un bel vantaggio. Su questo devo spendere una parola su Alessandro Tondo che in queste settimane si è riadattato ad un ruolo nell’attesa che recuperasse il nostro opposto e ha fatto sì che la squadra portasse comunque a casa i risultati”.

    Foto Lega Volley Maschile

    Si capisce che la forza di questa squadra è proprio il gruppo. Non era facile, pensando a tutti i protagonisti che da questa stagione pretendevano qualcosa.

    “Probabilmente è la squadra più forte con la quale abbia mai giocato. È un ambiente nel quale c’è una bella energia, una voglia di far bene e di ottenere il massimo da tutti quanti non facile da ottenere. Per il livello delle prestazioni è certamente una delle migliori, in grado di tirar fuori da ognuno un livello altissimo, sia nelle prestazioni in gara, sia durante tutta la settimana in allenamento”.

    Cinque anni fa, in questi giorni, entravamo in lockdown. Lei passò un momento molto particolare.

    “Un momento forzato, se vogliamo anche più facile da gestire rispetto agli altri, perché già prima del lockdown mi era stato detto che avrei dovuto stare a casa. Subii un’operazione al crociato che doveva tenermi fuori per alcuni mesi. Ero a Bergamo, che fu teatro di un contagio non semplice da gestire. Ricordo che ero uno dei pochi ad uscire in quei giorni per potermi recare a fare le terapie. Sì, ricordo la spettralità della città e il momento”.

    Foto Instagram @natashaspinello

    In quelle condizioni solo le persone giuste che ci aiutano a superare determinati momenti. Non posso non chiederle che ruolo ha la sua compagna Natasha Spinello (atleta della Volskbank Vicenza Volley n.d.r.).

    “Lei è ciò che di meglio la vita sia riuscita a donarmi. Siamo tenaci, resistiamo al lavoro che ci porta entrambi in città diverse e lo facciamo cercando di vederci in ogni occasione utile. Lei quest’anno gioca a Vicenza, quindi in due ore e mezza riusciamo ad essere l’uno a casa dell’altro. Ma ci sono stati anni in cui avevamo sei ore di viaggio da fare e ci vedevamo a metà strada. Il punto di ritrovo era Civitanova, se ci penso mi fa sorridere, perché era esattamente a tre ore da Porto Viro e da Latina, dove giocavamo entrambi. È dura, e sarebbe bellissimo se la carriera ci portasse a stare nella stessa città. Chissà”.

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    Romanò si racconta: il presente dice Piacenza, il futuro Russia, l’estate matrimonio e Nazionale

    Sapevo già, all’inizio della nostra conversazione, che come nella migliore scena di Nanni Moretti ne “La stanza del figlio”, mi sarei ritrovato con lui a cantare quel pezzo di “Insieme a te non ci sto più” di Caterina Caselli (arrivederci amore ciao, le nubi sono già più in là). Scrivo col cuore di un innamorato della pallavolo e provo a far capire cosa abbia provato in questi anni, nei quali Yuri Romanò ha compiuto un percorso che non ho visto fare a molti da quando scrivo di pallavolo, ovvero circa vent’anni. È la strada di chi fatica, moltissimo, e non si vede riconoscere i propri sforzi e i propri meriti per una lunga fetta di carriera. Nonostante questo Yuri lavora, giocando già quando tutti pensavano che dovesse stare dove è oggi, o quantomeno gravitare nella stessa serie, a giocare in A2. Il cortocircuito si genera quando De Giorgi comprende che Romanò meritasse di sbocciare e su di lui scommette molto, non pensando minimamente che l’esperimento potesse essere azzardato. Yuri sboccia in una notte, è come un girasole che al primo sole viene fuori in tutta la sua bellezza e diventa ciò che poi lo porta a indossare la maglia azzurra, salire alla ribalta della cronaca del volley, vincere e ancora vincere, arrivare in Superlega, giocare a Parigi. Fine primo tempo. 

    Bello, penserete tutti. È andata effettivamente così, ed esattamente alla velocità di una fioritura, Romanò è passato dall’essere un esperimento a diventare un successo. È così che molti ragazzi hanno cominciato a credere quanto nella pallavolo la gavetta conti e quanto i treni nella vita possano passare, basta tenersi pronti. È una storia più americana che italiana, e come ogni cosa alla quale ci si affeziona, arriva un momento in cui è bene lasciarla andare. La nuova casa si chiamerà Russia, lo scrivo io perché è un momento in cui la testa di Romanò è occupata dai playoff, e con la Piacenza che racchiude molto di quello che più rappresenta la varietà dell’estetica pallavolista (il cavaliere dal doppio oro Brizzard, il più forte del mondo Simon, l’essere Galassi e l’arte della sua misura, etc.) è giusto che pensi solo ed esclusivamente a questo.

    Lei cosa aggiungerebbe?

    “Che andrò con Marta e Bianca a sperimentare qualcosa di nuovo per tutti. Per il resto è ancora prematuro parlarne, anche perché il mio presente dice Piacenza e soprattutto playoff”.

    Si ricorda quando è arrivata Bianca? Sembra passato un secolo Romanò.

    “Ricordo l’enorme felicità. Ricordo di aver ricevuto la telefonata di Marta una mattina presto durante le finali della VNL e di averlo condiviso con i soli compagni di squadra dopo Italia-Francia all’Europeo”.

    Il sei gennaio 2025 che è successo invece?

    “Ho chiesto a Marta di sposarmi. L’anno giusto, anche se ci sposeremo la prossima estate”.

    I testimoni?

    “Top secret”.

    Il mondo della pallavolo quanto sarà coinvolto?

    “Un testimone sicuramente. Il resto tanti invitati, ma non posso dire di più, perché ne dobbiamo ancora parlare”.

    È tutto successo nei momenti migliori Yuri. La sua vita è una consequenzialità di ordine ed eventi con una logica e un senso preciso. Sbaglio?

    “La mia vita è come una scala. Non lo so se i passi che ho fatto sono tutti corretti e fatti nell’ordine canonico. Ma per me ogni cosa ha avuto un senso, nelle scelte fatte, negli eventi che ho vissuto, nelle emozioni che ho provato”.

    La pallavolo è stata una grande battaglia. Ora?

    “Ha la giusta importanza, è il mio lavoro, è ciò che influenza la mia vita. Ma la vita stessa mi ha dato anche Marta e Bianca e ha rimescolato priorità, ordine, e importanza. Adesso non vedo l’ora di finire l’allenamento per andare a casa e stare con loro, ad esempio. Quando cade l’ultima palla dell’allenamento so che c’è anche qualcosa al di fuori del palazzetto”.

    A Piacenza la stagione è stata una scalata. Ora, con Travica in panchina, mi sembra siate in una strada più scorrevole, in discesa.

    “Tra me e lui c’è stato un bel confronto all’inizio della sua collaborazione con Piacenza e questo l’ho apprezzato molto. Per quanto riguarda la squadra, dobbiamo dimostrare ai playoff di aver acquisito quella continuità che è mancata per tutta la stagione. Si lavora, tutti i giorni, e la domenica cerchiamo di tirare fuori ciò che di meglio sappiamo fare. È un altro campionato, bisogna avere il coraggio di archiviare la stagione che è stata e giocare ripartendo da zero, o meglio dal piazzamento in regular season”.

    Con Verona è cominciata la seconda fase. Per ora il campo dice 1-0 Piacenza.

    “Per come sono andate le partite anche in regular season, siamo contenti di avere la possibilità di giocarci la prima fase con loro. Un po’ li soffriamo, ma abbiamo dimostrato di poter avere la meglio. Non sarà semplice, ma non lo è nemmeno l’eventuale proseguimento. Daremo il massimo, questo è poco ma sicuro”.

    Poi si torna a lavorare in azzurro? Lei mi sembra l’unico ad aver vissuto Parigi come un traguardo.

    “Il traguardo della mia prima Olimpiade. Lo è stato sul serio, e per me era già un sogno poterci essere. Non nego che io l’abbia vissuta dall’inizio come un’occasione in cui godermi anche l’essere arrivato fino a lì. Tanti anni fa certi traguardi erano molto molto lontani. C’è stata inevitabilmente la delusione dopo la Francia e poi gli Stati Uniti. Personalmente è un’esperienza che si è archiviata e di cui mi porterò dietro ricordi e insegnamenti”.

    Ripartirà da qui.

    “Sì. Il resto si costruirà stradafacendo”.

    Di Roberto Zucca LEGGI TUTTO

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    Dalla C alla Coppa Italia di A3, la rivincita di Davide Russo a Sorrento

    Non pensavo che un colloquio che inizia dalla vincita di una Coppa Italia, potesse essere un viaggio così complesso, potesse essere costituito da squarci di vita che non possono essere dati in pasto a un pubblico con semplicità e da una voce che come quella di Davide Russo, si è levata così in alto da avermi lasciato più volte lungo il corso della chiacchierata senza le parole giuste. O addirittura senza parole. C’è una dimensione umana profonda nella storia di Davide, per la quale la vittoria di un titolo rappresenta un nuovo inizio, ma anche una scure, una bacchetta che mostra il presente bellissimo e il passato con il quale ti sei riappacificato, ma è sempre lì a ricordarti chi eri e come hai dovuto risalire la china.

    Partiamo da lei.

    “Partiamo da Davide, che lo scorso anno ha giocato a Tricase in serie C da schiacciatore, ed oggi è campione d’Italia”.

    Come ci si sente?

    “Inizierei col dire che ancora non ci credo. Non è la Final Four il momento più complesso, ma la mattina dopo, quando ti svegli e sei campione d’Italia. È lì che la mente viaggia e mi riporta a cosa sono stato, a dove sono arrivato e da dove sono ripartito. Sono stato sveglio per tre notti, perché sabato dopo la vittoria della semifinale è stata durissima prendere sonno. Domenica abbiamo festeggiato con i compagni, con i nostri meravigliosi tifosi. Lunedì notte ho pensato a tutto e ho fatto una sorta di recap, pensando alla Coppa e a quanto sono riuscito a tenerla stretta”.

    Proviamo a spiegare cosa rappresenta.

    “Io non ho mai vinto nulla nella mia carriera, se non alcuni premi del mini volley e un torneo provinciale. Ho militato parecchie stagioni in A3 e ho cominciato due avventure diverse con Vibo Valentia e Padova. Ma ho anche giocato in serie C come ho detto, quando ho avuto bisogno di fare un passo indietro rispetto alla mia carriera e alla pallavolo”.

    Ha avuto bisogno di tornare a casa. Le stagioni con Padova e Vibo si interrompono per motivi diversi.

    “Ho avuto necessità di tornare in Puglia, sono uscito dal giro della nazionale. Non imputo alcuna colpa alle società o ai compagni di squadra che nel caso di Padova ho conosciuto giusto per un mese, ma sono arrivato ad un punto in cui da quei luoghi, da quelle città, sono stato costretto ad allontanarmi per motivi personali. Mi sono rimboccato le maniche e sono ripartito. Mi creda, domenica non mi è sembrato vero di poter guardare i compagni e realizzare di aver vinto. Ho i brividi mentre siamo al telefono, perché nella mia vita pallavolistica sono arrivato a sentirmi inutile. E c’è stato un momento in cui mi sono sentito incompreso dalla maggior parte delle persone che avevo intorno”.

    C’è stata Piera. Altra persona a cui lei ha dedicato la Coppa.

    “Piera è la mia prima allenatrice, ed è stata per me come una seconda madre, oltre ad essere stata la mia madrina di cresima. Domenica sugli spalti non è potuta esserci, perché sta lottando con alcuni problemi di salute, ma non ha esitato a seguirmi e mi è stata molto vicino. Era come se fosse lì”.

    Le chiedo un’ultima informazione. Ha sentito Agata e Camilla?

    “Se parlo di loro mi commuovo. Sono le figlie di Marcella, mia sorella, e nella nostra vita hanno portato tantissima gioia e mi creda, ne avevamo tutti bisogno. Ho dedicato la vittoria anche a mio fratello Giacomo, che non è potuto essere con noi a festeggiare. In compenso c’erano mamma e papà, presentissimi come sempre”.

    Perché Sorrento ha vinto la Coppa?

    “Perché non c’è giorno in cui qualcuno di noi non entra in palestra e si diverte. Personalmente ho ritrovato il piacere di allenarmi ogni giorno. Stiamo vivendo un anno che io definisco magico, proprio perché in palestra si respira un’aria diversa, appunto piena di magia. Siamo riusciti a battere San Donà in finale con un seguito di persone incredibile che ha viaggiato con noi, festeggiato e sofferto assieme alla squadra. Sabato in semifinale, ci siamo tutti guardati negli occhi al quinto set, e abbiamo capito che dovevamo portare la partita a casa anche per tutte le persone che ci seguono con così tanta passione”.

    Battere Bellucci in finale cosa ha significato?

    “Significa ritrovare un grande amico con cui mi sento nella quotidianità e che sta facendo un percorso bellissimo in un’altra squadra. Gli auguro il meglio dal giorno in cui ci siamo conosciuti. Alla fine della gara gli ho detto che noi ci ritroveremo quest’anno, ne sono certo”.

    Come la mettiamo con le prossime finali?

    “Noi dobbiamo fare il triplete, lo ripeto sempre negli spogliatoi. L’entusiasmo c’è tutto!”

    La pallavolo le ha un po’ rovinato e un po’ salvato la vita?

    “Quando l’ho lasciata, mi sono sentito inutile. Ma certamente mi ha salvato la vita. Lo penso davvero”.

    Di Roberto Zucca LEGGI TUTTO