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    Carlo Parisi: “Al volley del Sud mancano cultura e capacità dirigenziale”

    Di Agnese Valenti Prosegue il nostro viaggio nella pallavolo al Sud: un ciclo di interviste ad esperti, dirigenti, allenatori e giocatori per conoscere meglio la realtà del nostro sport nelle regioni del Mezzogiorno. Il protagonista dell’intervista di oggi è Carlo Parisi, allenatore di lunga esperienza nato a Catanzaro e cresciuto sportivamente a Messina, prima di diventare uno dei tecnici più apprezzati a livello italiano e internazionale con un curriculum ricco di successi. A lui abbiamo chiesto di raccontare la sua esperienza e di esplorare prospettive, limiti e potenzialità del pallavolo alle latitudini più meridionali dello Stivale. Dopo 8 stagioni a Messina (2 da vice allenatore per poi passare a head coach), la sua carriera si è sviluppata spostandosi sempre più a Nord: a Roma, a Chieri, per arrivare alla sua esperienza finora più longeva (11 stagioni) a Busto Arsizio. Lei crede che se, ipoteticamente, avesse scelto o le avessero proposto di rimanere in una società del Sud, sarebbe riuscito a raggiungere gli stessi obiettivi e risultati? “È una domanda molto difficile, ma voglio essere schietto: non credo. Nel momento in cui sono andato via da Messina, ho avuto la possibilità di spostarmi a Roma (sempre in A2), dove sono stato tre anni. La situazione in Sicilia stava evolvendo in senso negativo: ci sono stati gli anni d’oro – sono parte di quella storia di Messina – con la storica promozione in A1, ma sempre accompagnata da una situazione molto difficile da gestire, soprattutto dal punto di vista economico. Non credo che il mio percorso di Busto Arsizio si sarebbe potuto sviluppare allo stesso modo a Messina. Lo dico con grande rammarico: da quando sono andato via fino ad oggi, ciò che è successo parla chiaro. Quelli sono stati anni a cui non è stato dato un seguito“. Vede come una scelta forzata quella di lasciare il Sud per cercare di fare carriera e portare avanti un progetto più ampio? “Questo è un discorso abbastanza complesso: potrei rispondere allo stesso modo con un sì, ma anche con un no. La situazione è abbastanza complicata al Sud, basta vedere la geografia pallavolistica. Sono andato via ormai tantissimi anni fa e pur mantenendo i contatti con coloro con cui ho vissuto i miei anni a Messina, sia ciò che loro mi raccontano e sia ciò che leggo mi dice che – purtroppo – se qualcuno vuole proseguire questa carriera (già complicata di suo), ci vogliono una passione smisurata e una grande voglia di confrontarsi con gli altri. Una volta che sono andato via da Messina, inevitabilmente la mia vita si è spostata al Nord, anche per motivi privati: la mia compagna Marianna è di Novara“. Foto Facebook Vbc èpiù Casalmaggiore Cosa ne pensa della presenza limitata di società di pallavolo meridionali ad alti livelli e di giocatrici del Sud in formazioni del Nord e anche in nazionale, nonostante che questa attività sportiva sia ampiamente diffusa al meridione? “Quello che secondo me manca al Sud è una cultura e una capacità dirigenziale. A volte c’è un po’ di improvvisazione, a volte mancano le risorse. So che ci sono ovviamente ottimi allenatori anche al Sud, che c’è un movimento pallavolistico che purtroppo non riesce mai ad emergere, ma non si riesce mai a costruire qualcosa di duraturo. Tutto si scioglie come la prima neve al sole. Lavorare sulla crescita dei giocatori e delle giocatrici e sull’attività giovanile è un impegno e un investimento che richiede risorse. A volte è importante avere una società che trascina, come punto di riferimento, ma spesso dietro non c’è un lavoro che possa dare continuità, se eventualmente ci dovessero essere delle difficoltà. Ci sono delle realtà nel Meridione che si dedicano alla realtà giovanile, ma ci vogliono molti investimenti: le attività giovanili costano quasi più di una squadra che milita in una categoria superiore. Ci vogliono appassionati e gente che ha voglia di lavorare: i risultati non si ottengono nell’arco di poco tempo, ci vogliono molti anni. L’attività giovanile è quasi una missione: c’è bisogno che sia un obiettivo principale“. Quali sono i principali ostacoli che si incontrano al Sud dal punto di vista economico? “A Messina noi eravamo sostenuti dagli sponsor, indubbiamente fondamentali, ma dietro c’erano i ‘famosi’ contributi regionali da cui siamo dipesi per anni e anni. Oggi si vede una situazione che non è molto diversa da quella che lasciai io: ciò non vuol dire che non ci siano gli appassionati, ma il problema è che a volte si guarda troppo nel proprio orticello e si tende a tenerselo stretto. Non c’è stata una vera collaborazione tra società nella pratica. Non parliamo poi del disastro che ha provocato la pandemia: ad una situazione già complicata si è aggiunta la devastazione creata da attività sospese, scuole chiuse… al momento la situazione è molto difficile. La mia sensazione è che al Nord ci siano maggiori possibilità dal punto di vista dell’impiantistica e del materiale umano. Per quanto riguarda le sovvenzioni si apre un altro capitolo: lo sport ha sempre risentito parecchio di tutti i tagli che sono stati fatti alla spesa pubblica. Viviamo in un’epoca in cui si fanno tagli persino alla sanità, e sappiamo benissimo i risultati che ci sono stati. Si può anche entrare nel campo della qualità delle persone che ci governano, ma è un discorso molto ampio“. Foto Rubin/LVF Il problema, però, sembra non essere solo economico… “Quello che mi preme dire è che ci vogliono persone che abbiano passione e un’idea ben chiara in testa: la passione non è una cosa che alla prima difficoltà o al primo non-risultato crolla. La passione è quell’energia che ti porta ad andare sempre avanti, a guardare fisso l’obiettivo da raggiungere e cercare di creare le condizioni che ti portano a raggiungere quel determinato obiettivo. Ci sono tante realtà che lavorano nel giovanile, e che ormai sono ben conosciute in Italia. Tante altre società stanno cercando di stare in piedi, stanno cercando di rimanere a galla, e sono queste società che c’è bisogno di incentivare e stimolare a poter sviluppare ancora di più questa passione ed energia. La mia sensazione è questa: vedo che ci si arrende con troppa facilità, che quello che si sbandiera come ‘grande motivazione’ sparisce con eccessiva semplicità“. Ci fa qualche esempio concreto? “In Sicilia abbiamo Marsala, che è in A2 Femminile, mentre nel maschile ci sono meno realtà importanti. Un bacino come quello di Catania, che è sempre stata una città che ha dato talenti in Italia e che ha sempre avuto uno sviluppo della pallavolo altissimo, vive delle difficoltà ma si continua a lavorare. Il problema è che bisogna esserci dentro per capire i veri problemi. In Calabria c’è Soverato che, come sappiamo tutti, ogni anno riesce a finanziare un campionato di A2, ma non sembra che dietro ci sia qualcosa di concreto e duraturo, a parte gli sforzi del presidente Antonio Matozzo. Bisogna capire cosa realmente si vuole. Una realtà come Vibo Valentia è già diversa: da tanti anni è lì, quest’anno in particolare ha fatto molto bene. Questo può portare visibilità, può portare sponsorizzazioni, può portare tanta gente che si avvicina, però dietro ci deve essere un progetto solido che supporti tutto il resto. Un progetto duraturo con le idee molto chiare. Io penso che anche a livello dirigenziale bisognerebbe fare un percorso di formazione, come facciamo noi allenatori. Quando ero più giovane prendevo la macchina e andavo dappertutto: da Messina ero anche arrivato a Pordenone per seguire gli allenamenti della nazionale juniores. Questa è la voglia di confrontarsi e aggiornarsi. A livello dirigenziale non si fa un lavoro abbastanza qualificato per sapere di cosa veramente si parla: non è solamente la sponsorizzazione, piuttosto che il contributo pubblico, è tutto una serie di componenti che rendono una società strutturata, solida e con delle idee ben chiare“. Un ostacolo allo sviluppo del volley al Sud è la carenza di strutture, lei in questo senso che esperienza ha avuto? “Nel Sud la carenza di impianti è sempre stato un enorme problema. Basta guardare dove gioca la prima squadra di Messina, una formazione di B1 (Akademia Sant’Anna), con cui io ho vissuto la mia promozione in A1, che ha dovuto sospendere gli allenamenti perché pioveva dentro la struttura. Pur vivendo lontano da Messina da tanti anni, so che purtroppo lì la situazione è complicata. Quest’anno non fa testo: con il Covid ci sono state delle difficoltà che hanno coinvolto tutta Italia. Campionati sospesi, modificati, squadre che hanno rinunciato a fare il campionato con tante atlete e tanti atleti che sono rimasti a casa. Mi ricordo che quando a Messina sono entrato nel palazzetto, c’era la scuola, c’era il corso delle ‘mamme’ che andavano a fare attività (ride, n.d.r.)… poi piano piano, con una società che si è strutturata, che ha lavorato anche sul territorio, siano riusciti a guadagnarci i nostri spazi. Soprattutto grazie alla società che si è avvalsa di persone volenterose, di un allenatore con una lunga esperienza in serie A, che ha dato tutte le informazioni necessarie per collaudarsi, per superare i gineprai della burocrazia, per cercare di trovare degli spazi a gomitate, per cercare di far crescere una squadra che negli anni ha poi raggiunto una promozione. Poi però la squadra non è stata in grado di mantenersi, perché non c‘era dietro la possibilità economica per poter reggere una situazione del genere. Oggi le persone che conosco non mi dicono cose molto diverse. Ci sono sempre delle realtà diverse, delle situazioni differenti, qualcosa che emerge c’è sempre. Però i risultati si vedono col tempo e con la pazienza“. Foto CVF Lei è stato CT della nazionale ceca per tre anni: com’è stata la sua esperienza all’estero e quali differenze ha trovato con il sistema italiano?  “La mia esperienza con la Repubblica Ceca è stata molto positiva. È ovvio che essendo una nazionale hai meno problemi rispetto a quelli che una società di club potrebbe affrontare. Ci allenavamo d’estate, quando molte delle squadre erano ferme, però quello che ho incontrato è un paese che forse è rimasto ancorato a vecchie idee e non si è abbastanza evoluto. Parlo ovviamente del femminile: basta guardare il campionato ceco al momento. Un campionato in cui la squadra di vertice farebbe fatica in una nostra A2. Il livello è ‘così-così’: gli allenatori stessi non sono molto contenti di dover accettare la presenza di un tecnico straniero. In tre anni di lavoro avrò visto, per esagerare, una decina di allenatori, nonostante avessimo girato il paese in lungo e largo. È stata comunque un’esperienza positiva: ci si confronta con realtà, culture e abitudini diverse e questo non può che essere un arricchimento. Da un punto di vista pallavolistico, magari mi sarei aspettato qualche cosa in più. Ho avuto anche le mie soddisfazioni: ho fatto esordire in nazionale una ragazzina di 16 anni, azzardo che alla fine ha avuto i suoi aspetti positivi. Ho conosciuto tante atlete che anche in questi anni ho incrociato. A livello di strutture e organizzazione, qualcosina da dire ci sarebbe“. Ha anche allenato due club esteri, in Azerbaijan e Francia. “L’Azerbaijan è una realtà su cui c’è poco da dire. C’erano squadre che si facevano la guerra tra di loro: molte squadre erano legate ai ministeri o alle università. Viaggiavano quantitativi di soldi industriali, e si cercava di prendere i giocatori migliori per portarli lì. Dietro non c’era nulla: sia allora che ora. Una volta che sono finiti i soldi, il campionato azero non esiste più. La Francia è un pochino come da noi. Tolte alcune squadre della serie A (Mulhouse, Cannes, Béziers, Le Cannet), siamo andati a giocare in campi dove lo stesso allenatore ci montava la rete per gli allenamenti della mattina, oppure squadre che in trasferta si presentavano solo con l’allenatore in panchina. Ci sono però squadre che sono molto ben strutturate, c’è anche un’assistenza sanitaria, qualcosa di molto diverso da noi. È gestita meglio e c‘è più tutela, dato che atleti e allenatori sono professionisti. Nella serie A italiana abbiamo visto un po’ tutto. C’è anche un’altra differenza: l’allenatore tende ad essere sia allenatore che direttore sportivo. Si appoggiano molto a quello che fa e dice il tecnico. A differenza di ciò che succede da noi, in cui ci sono realtà in cui l’allenatore ha un peso specifico, ma anche altre situazioni in cui le società si muovono in maniera diversa. Lì quasi tutto dipende dall’allenatore, è lui che si deve muovere per costruire la squadra, finché la società lo può supportare. Ci sono anche altri fattori: noi ad esempio abbiamo fatto anche un corso per insegnare. Siamo a tutti gli effetti professori di scuola. C’è una visione diversa rispetto all’Italia. Poi ovviamente ci sono anche i contro, ma ci sono molti vantaggi“. LE PUNTATE PRECEDENTI:1. La questione meridionale nel volley: perché manca il Sud ad alti livelli?2. Filippo Maria Callipo: “Sacrificio e costanza, le chiavi del successo di Vibo” LEGGI TUTTO

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    La Corea di Roberto Santilli: “È stata la mia stagione più difficile”

    Di Eugenio Peralta La capacità di esportare allenatori di alto livello è uno dei marchi di fabbrica della nostra pallavolo: sono innumerevoli i tecnici italiani che hanno conquistato campionati e trofei all’estero. Ma Roberto Santilli non è solo uno dei tanti: il titolo di V-League vinto con i KAL Jumbos si può considerare una doppia impresa. Innanzitutto perché Santilli è il primo coach straniero ad allenare e vincere in Corea del Sud (e sembra aver aperto una strada, tanto che la squadra della Korean Air ha scelto per sostituirlo il finlandese Tommi Tiilikainen), e poi perché lo ha fatto nel contesto forse più ostico possibile per un carattere indipendente e “ribelle” come il suo. A raccontarcelo è lo stesso allenatore romano in una chiacchierata che tocca anche il tema della sua prossima avventura: nella prossima stagione guiderà infatti lo Ziraat Bankasi Ankara, prendendo il posto di un altro tecnico italiano reduce dalla vittoria del proprio campionato, Giampaolo Medei. Cominciamo dalla Corea del Sud: com’è andata quest’ennesima esperienza all’estero della sua carriera? “Be’, ne ho vissute tante, ma devo dire che questa le supera tutte per difficoltà e diversità. In un mondo globale, in cui ormai è assodata la circolazione di persone, merci e idee, la Corea è una realtà ancora chiusa e soddisfatta di esserlo, che non ci tiene per niente ad aprire le barriere. Mi aspettavo di trovare un terreno fertile in cui seminare, e invece mi sono accorto subito che questa condizione non c’era. Ho incontrato tantissime resistenze, molto più forti ad esempio rispetto al Giappone, nel cercare di introdurre un approccio più globale alla pallavolo. È davvero difficile riuscire a convincere le persone a porsi e comportarsi in modo diverso“. Foto KAL Jumbos A che tipo di resistenze si riferisce? “Soprattutto organizzative e burocratiche, ma anche dal punto di vista tecnico. Un esempio pratico è quello dell’utilizzo dei giovani: in Corea c’è una rigidissima gerarchia, nella pallavolo come negli altri ambiti della società, in base alla quale sono i più vecchi a dettare le regole e i giovani non hanno spazio. Una costruzione sociale che è contraria ai miei principi, perché sono un democratico convinto… Così mi sono trovato a mandare in campo molti giocatori che non avevano mai avuto occasione di giocare, cercando di sostenere e dare fiducia ad atleti giovani che spesso erano i primi a non credere in loro stessi“. Siete riusciti a vincere nonostante il cambio in corsa dello straniero, un problema non da poco in Corea… “Nella V-League c’è la filosofia secondo cui lo straniero deve essere il terminale d’attacco principale, quello a cui arrivano tutti i palloni. Ma da noi Villena è arrivato infortunato e così ho dovuto ricostruire un modello di gioco più simile al nostro, basato sulle responsabilità condivise, sul gioco di squadra: concetti non facili da far passare. Alla fine più del 50% delle nostre vittorie sono arrivate senza lo straniero in campo e abbiamo vinto sia la regular season sia i play off, cosa che in Corea non succede praticamente mai“. Ma l’idea di restare alla guida della squadra non è mai stata in discussione? “Sinceramente no, la separazione è stata consensuale. Era evidente che non c’erano le condizioni per andare avanti, da parte mia ma tutto sommato anche della società“. Fuori dal campo, invece, com’è stata la sua esperienza? “La vita in Corea è tranquilla e piacevole, è un paese agiato e con un buon livello di benessere. Non c’è microcriminalità, nel senso che non esiste del tutto, e non abbiamo avuto neppure grosse limitazioni legate alla pandemia. Le società sono molto organizzate, anche perché appartengono tutte a grandi multinazionali: non hanno certo problemi di budget, si può avere praticamente qualsiasi cosa di cui si abbia bisogno. Basti pensare che in palestra avevamo un maxischermo di 6 metri per 4…“. Avete avuto modo di vedervi con Valentina Diouf, l’altra italiana in Corea? “Sì certo, anche se in gran segreto (ride, n.d.r.), perché le società non gradiscono molto che gli stranieri si ritrovino tra di loro. Ci siamo incontrati qualche volta per una cena a casa, il marito di Valentina tra l’altro è di Roma e ci siamo trovati subito bene!“. Foto Instagram Korean Air Jumbos Adesso, tanto per non farsi mancare nulla, la aspetta un altro campionato con un bel po’ di pressione come quello turco… “Io sono convinto che per fare questo lavoro a certi livelli la pressione ce la devi avere dentro. Per me era un sogno diventare allenatore e ci sono arrivato partendo dal basso, quindi sono stato il primo a mettermi pressione da solo: le condizioni esterne non fanno una grande differenza“. Cosa si aspetta dalla nuova stagione allo Ziraat Bankasi? “In realtà ero pronto a fare un po’ di vacanze… Ma sono molto contento di essere stato contattato, aggiungo un’altra bandierina al mio Risiko! Sto facendo la quarantena in Italia e non ho ancora avuto modo di andare in Turchia, ma ho già scoperto una realtà molto organizzata, oltre che molto ambiziosa“. Come si fa a passare dalla Corea alla Turchia in pochi mesi? “Studiando, come sempre. Il mio mestiere alla fine consiste in questo: studiare giocatori e squadre, capire come funziona una determinata realtà e provare a interpretarla“. LEGGI TUTTO

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    Filippo Maria Callipo: “Sacrificio e costanza, le chiavi del successo di Vibo”

    Di Agnese Valenti Continua il nostro ciclo di articoli dedicato alla pallavolo nelle regioni del Sud. Dopo l’intervista al professor Daniele Serapiglia della Società Italiana dello Sport, con cui abbiamo esplorato il divario esistente tra le diverse zone d’Italia in termini di tesserati e di società di alto livello, oggi andiamo invece alla scoperta di una realtà virtuosa e fondamentale per il volley maschile di alto livello nel Mezzogiorno: la Tonno Callipo Calabria Vibo Valentia. La formazione giallorossa, che quest’anno ha disputato una stagione entusiasmante, chiudendo la regular season al quinto posto in classifica e sfiorando una semifinale, è l’unica squadra meridionale in Superlega, un importante punto di riferimento per atleti e società del territorio con grandi progetti per il futuro. Abbiamo intervistato il vicepresidente del Club calabrese, Filippo Maria Callipo, ventiseienne e secondogenito del massimo dirigente Pippo Callipo, che già da due anni svolge con dedizione il ruolo dirigenziale dando prova di aver ereditato dalla famiglia l’amore per la sua terra e per la pallavolo. Foto Volley Tonno Callipo La vostra storia ha avuto inizio nel 1993 con la fusione tra le due realtà sportive locali, Pallavolo Vibo Marina e Fiamma Vibo Valentia. Sono passati quasi 28 anni da quella data: cosa è cambiato da quel giorno, e quale pensate sia stato il fattore principale che ha portato al successo la società e la squadra? “Quando mio padre decise di assecondare l’iniziativa di un gruppo di amici, sostenendo il loro progetto sportivo per una squadra militante in C2 con una piccola sponsorizzazione, per lui si trattava di un hobby a cui dedicarsi nel tempo libero. Man mano che la squadra compiva la sua scalata sono aumentati, naturalmente, anche impegno ed attenzione. Una volta raggiunta la Serie A2 ci si è resi conto che era necessario iniziare a strutturare un’articolata organizzazione di professionisti e quindi l’attività ha preso le sembianze di un lavoro a tutti gli effetti. Sacrificio e costanza sono state le coordinate che hanno guidato il nostro viaggio. Sono servite anche buone dosi di passione ed impegno“. Quali sono state le principali difficoltà che avete incontrato nel corso della vostra esperienza in Serie A? In particolare, è stato difficile “convincere” giocatori di alto livello a trasferirsi a Vibo, in un contesto diverso da quello del Centro-Nord? “La posizione geografica non ci ha mai avvantaggiato, considerato che la maggior parte delle squadre che disputano il campionato di Superlega appartengono a città del Centro-Nord. Più salivamo di serie e meno squadre del Sud trovavamo tra i nostri competitor. Purtroppo questo trend non è cambiato negli anni. Far arrivare i giocatori a Vibo è complicato, tant’è che cerchiamo sempre di selezionare atleti che credono con convinzione nel nostro progetto. I giocatori di alcune nazionalità sono più propensi a venire al Sud, sentendosi più affini al nostro ambiente e al nostro calore. È il caso dei brasiliani, che ormai da anni considerano la Calabria una seconda casa“. Tonno Callipo Calabria Volley La pallavolo al Sud ha una grande tradizione, ma fatica ad esprimere realtà di prima fascia, soprattutto nel settore femminile. Quali sono secondo voi le principali cause di questa situazione? “Le difficoltà sono soprattutto legate alle condizioni socio-economiche. Non ci sono molte società sportive che possano lavorare attivamente al reclutamento dei giovani atleti, che per questo non riescono, di conseguenza, a crescere tecnicamente nel loro territorio“. Molte volte durante la vostra storia siete stati costretti ad “emigrare” in palazzetti di altre città (l’ultima volta durante il campionato 2019-2020, quando vi siete temporaneamente trasferiti a Reggio Calabria). Come pensate si possa affrontare il problema della carenza di strutture, che è uno dei grandi disincentivi per lo sviluppo della pallavolo – e dello sport in generale – ad alto livello nel meridione? “Paradossalmente da noi, effettuando una mappatura del territorio, si evince che non c’è una carenza di strutture (solo nella provincia di Vibo se ne contano una decina). Semmai si può parlare di una sovrabbondanza di impianti sportivi, che però sono abbandonati e non fruibili dalle piccole società, che ne avrebbero necessità e che da sole non riescono a riqualificarli e gestirli“. L’inaugurazione del PalaMaiata Il vostro settore giovanile dà la possibilità a ragazze e ragazzi del Sud Italia di esprimere il proprio talento, ma purtroppo pochi di questi giocatori riescono a proseguire la propria carriera da alti livelli. Cosa pensate scoraggi i giovani meridionali o ostacoli la loro crescita? “Per una questione di mentalità i giovani del Sud preferiscono dedicarsi agli studi universitari intravedendo, in questa strada, maggiori sicurezze per il futuro, a discapito del tempo dedicato allo sport che diventa quindi marginale. Solo quelli più talentuosi, sentendosi da subito appagati, continuano la carriera pallavolistica“. Un tema su cui si dibatte costantemente, per quanto riguarda la Superlega, è lo spazio dato ai giocatori stranieri a scapito dei giovani italiani. Pensate che per la crescita del movimento sarebbe giusto dare maggiore spazio ai talenti del nostro paese? “Credo che per favorire la crescita del movimento sia necessario potenziare le basi del sistema, e cioè partire dal reclutamento dei settori giovanili, in modo tale che ci siano sempre più ragazzi italiani a praticare questo sport. Così aumenterebbero le possibilità che ad emergere siano i talenti nazionali, che in maniera del tutto naturale andrebbero a sottrarre posti agli stranieri“. Recentemente Vibo Valentia ha ospitato l’edizione 2021 del torneo WEVZA Under 17 maschile. Pensate che sia possibile ripetere l’esperienza con altre manifestazioni internazionali e che questo tipo di eventi possano costituire un volano utile per la crescita del territorio? “Eventi nazionali e internazionali di questo genere possono risvegliare e riaccendere l’interesse per la pallavolo in Calabria e nel Sud. Speriamo ce ne possano essere altri con la presenza del pubblico“. La squadra di Serie B / Foto Tonno Callipo Calabria Vibo Valentia Quest’anno, con il vostro quinto posto e una semifinale sfiorata, avete raccolto i frutti del vostro lavoro. In questa fantastica stagione è però mancata la spinta del calorosissimo pubblico giallorosso. Quanto conta per voi il sostegno dei tifosi e cosa si può fare per aumentare il loro coinvolgimento e il legame con il territorio, Covid permettendo? “Come in qualsiasi sport, i risultati incidono molto sull’umore della tifoseria. Quest’anno, con la stagione brillante che abbiamo disputato, avremmo sicuramente colorato il PalaMaiata di giallorosso in ogni partita, rendendo il pubblico un giocatore in più sul campo. Il nostro impegno sarà quello di promuovere dei momenti di incontro tra la squadra ed i tifosi, non solo in presenza ma anche attraverso l’uso dei social e del web, per riappropriarci di tutto il tempo perso“. La pallavolo cresce moltissimo e si sviluppa particolarmente nelle scuole. Come società operate anche all’interno degli istituti scolastici, per avvicinare le giovani ragazze e i giovani ragazzi alla pallavolo e alla Tonno Callipo? “Da sempre svolgiamo progetti scolastici su tutto il territorio calabrese, principalmente nella provincia di Vibo. Questa iniziativa ha avuto sempre grande successo e ottimi risvolti, per cui speriamo di poter riprendere prima possibile il nostro tour nelle scuole per dialogare da vicino con i giovani e avvicinarli al nostro mondo“. LEGGI TUTTO

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    Lo scudetto di François Salvagni: “Una vittoria che ripaga tanti sacrifici”

    Di Eugenio Peralta La Ligue A femminile francese è ormai da anni approdo d’elezione per gli allenatori italiani: Micelli, Schiavo, Orefice, fino allo scorso anno Marchesi. E poi François Salvagni, che la Francia ce l’ha nel nome e pochi giorni fa l’ha “conquistata” vincendo, con l’ASPTT Mulhouse, il primo scudetto della sua carriera e il secondo nella storia della società. Un successo ottenuto con due giornate d’anticipo, nell’unico campionato europeo che non prevedeva i play off, e sulla scorta di una stagione magica con 18 vittorie consecutive. Rendimento inaspettato per le stesse alsaziane, come racconta Salvagni ai nostri microfoni: “Non ce lo aspettavamo assolutamente, anche perché abbiamo iniziato molto male la stagione, giocando non bene a pallavolo e perdendo la Coppa del 2019-2020 (recuperata in settembre, n.d.r.). È stato un anno da costruire in corsa, e la cosa positiva è stata che siamo riusciti a vincere diverse partite anche quando giocavamo male: merito del gruppo, perché abbiamo 12-13 ottime giocatrici e ogni volta qualcuna ci metteva del suo. Ma fino a Natale ancora non riuscivamo a esprimere il nostro potenziale e in classifica eravamo tutti in gruppo“. E poi cos’è cambiato? “Be’, dopo tanti sacrifici e tanto lavoro la squadra ha cominciato a giocare molto bene. Secondo me le due ‘bolle’ di Champions League che abbiamo disputato ci hanno aiutato ad alzare molto il livello. In campionato abbiamo cambiato decisamente marcia e mostrato una qualità di gioco diversa. Nelle ultime 5 partite si è sentita un po’ la pressione: è stato molto importante vincere con il Voléro di Micelli per capire che potevamo farcela. Poi a Béziers poteva finire in qualsiasi modo, ma aggiudicarsi lo scontro diretto è stato il modo migliore per chiudere“. La pandemia di coronavirus ha messo a dura prova tutta la pallavolo mondiale, ma soprattutto quella francese. Come l’avete vissuta? “Abbiamo avuto la fortuna di poter continuare a giocare, ma per il resto è stata dura. Abbiamo perso il nostro team manager a dicembre, io personalmente ho vissuto la scomparsa di mia madre, e sono riuscito a vedere i miei figli solo una volta. Abbiamo fatto trasferte in un paese deserto, mangiando ognuno nella propria camera d’albergo e senza poterci concedere nulla nemmeno a casa, visto che l’Alsazia è stata la regione più colpita dalla prima ondata. Mi rendo conto che c’è chi ha sofferto molto o ha dovuto chiudere la propria attività, ma anche per noi è stato difficile. Anche per questo le ragazze hanno canalizzato tutte le loro energie per conquistare qualcosa di importante che ripagasse i tanti sacrifici“. Che campionato è quello francese? “Sorrido quando mi dicono che è un campionato di basso livello. Credo invece che il livello tecnico si sia alzato tantissimo: ci sono grandi allenatori, molti italiani, si gioca una bella pallavolo. L’ultimo campionato è stato di ottima qualità e lo dimostrano anche le prestazioni nostre e del Béziers in Europa. Certo non siamo ai livelli dell’Italia, ma nessuno lo è, neppure la Turchia… però dalla Francia sono partite tante giocatrici che poi si sono messe in mostra nei campionati internazionali, da Haak a Herbots“. A proposito, in Ligue A ci sono giocatrici in rampa di lancio per il campionato italiano? “Ce ne sono eccome, anzi diverse le vedrete già l’anno prossimo. Una di queste è la nostra schiacciatrice Hélena Cazaute, e per me il fatto che abbia conquistato un ingaggio in Serie A è un orgoglio e una medaglia personale, perché era stata lei a chiedermi di aiutarla a raggiungere questo obiettivo. Si parla molto anche di Ivana Vanjak, ma lei resterà con noi ancora un altro anno, proprio perché ha l’obiettivo di crescere ulteriormente per poi presentarsi in Italia da protagonista“. La Francia è l’unico paese europeo in cui i pallavolisti sono lavoratori professionisti, un tema di cui si parla molto anche in Italia. Cosa ne pensa? “In questa situazione ci ha aiutato tantissimo. Lo scorso anno, quando è stata sospesa l’attività, abbiamo ricevuto la cassa integrazione all’85% dallo Stato, oltre ai contributi pensionistici e a tutte le agevolazioni del caso. Voglio però essere ben chiaro: se si vuole il professionismo bisogna che tutte le componenti, dai giocatori ai procuratori, siano disposte a mettersi le mani in tasca. Perché la riforma, se ci sarà, comporterà un costo economico e probabilmente anche tecnico: le giocatrici guadagneranno qualcosa in meno e qualcuna sceglierà di andare altrove. Ma io mi auguro che accada, perché avere più solidità è l’unico modo per crescere“. LEGGI TUTTO

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    Il passo indietro di Iza Mlakar: “Diventare medico è il sogno della mia vita”

    Di Alessandro Garotta C’è chi sogna per una vita di indossare un paio di ginocchiere, allacciarsi le sneakers e volare su un taraflex di Serie A1. C’è chi, dopo averlo sognato, ci riesce. E poi, c’è chi ci riesce, sfiora il cielo con un dito e fa un passo indietro, a coltivare quell’altro sogno nel cassetto. Due passioni, un contributo fondamentale ai successi del Nova KBM Branik, un’esperienza alla Igor Gorgonzola Novara, i traguardi con la nazionale slovena, oltre ad una consistente dose di umiltà: questa è Iza Mlakar.  A quasi un anno di distanza dall’annuncio del suo addio alla pallavolo, l’ex opposto ci ha parlato della sua carriera e della vita da aspirante medico.  Iza, com’è cambiata la sua vita dopo aver appeso le ginocchiere al chiodo?  “Mi godo la vita cercando di fare tutto ciò per cui non avevo tempo quando giocavo. Mi dedico principalmente allo studio, essendo iscritta alla facoltà di Medicina, e faccio un sacco di sport: trekking, arrampicata, sci, mountain-bike (dopo ben 15 anni) e corsa. Infine, mi piace fare lunghe passeggiate con i miei due cagnolini e trascorrere tempo in famiglia o con amici, per quanto possibile durante questa pandemia“.  Quanto le manca nel percorso per diventare medico? Cosa rappresenta questo traguardo per lei?  “Mi mancano ancora due anni per conseguire la laurea. Diventare medico vuol dire raggiungere un obiettivo per cui mi sto impegnando e realizzare il grande sogno della mia vita. È un lavoro che comporta grande responsabilità e attenzione“.  Cosa le manca di più della pallavolo?  “È stato molto difficile cambiare lo stile di vita e vestire i panni di una ‘persona normale’, perché questo sport mi ha accompagnato fin da piccola, quando vedevo mio padre giocare in nazionale. In particolare, mi manca la sensazione di far parte di una squadra con cui condividere tutti quei momenti che in passato mi hanno reso felice e fatto sentire me stessa“.  Smettere a 25 anni, proprio nel punto più alto della sua carriera. Come mai?  “Stavo pensando di dire addio al volley già nel 2019, dopo aver vinto il campionato nazionale con il Nova KBM Branik, per focalizzarmi solo sullo studio, dato che Medicina è una facoltà che richiede il massimo impegno. Tuttavia, mi arrivò un’offerta da Novara appena prima dell’ultima partita delle finali e così decisi di continuare un altro anno: si stava realizzando un grande sogno pallavolistico. Infatti, fino a quella stagione, alla Igor giocava il mio idolo, Francesca Piccinini, e pensai che un’esperienza lì, per la prima volta fuori dalla Slovenia, fosse un modo per chiudere in bellezza. Quindi, è vero che ho smesso quando ero all’apice della mia carriera, e che probabilmente avrei potuto fare molto di più, ma quando mi sono trovata davanti a un bivio ho dato la precedenza allo studio, che non si poteva più conciliare con lo stile di vita che impone lo sport professionistico“.  Ripensando alla sua carriera: cosa la rende più orgogliosa? Ha qualche rimpianto?  “Sono molto orgogliosa di tutti i titoli nazionali vinti con il Branik e di aver fatto parte della nazionale slovena che per la prima volta ha partecipato al campionato europeo, dopo il secondo posto ai Mondiali under 23 di Ljubljana. Forse l’unico rimpianto è di non essere andata all’estero già nel 2017: un’esperienza di questo tipo a 22 anni sarebbe stata molto utile per la mia crescita. Allo stesso tempo, però, penso che nella vita tutto accada per una ragione“.  Quali sono le compagne e gli allenatori a cui è rimasta più legata?  “Sicuramente non dimenticherò mai quanto è stato importante per me Bruno Najdič, il mio allenatore a Maribor: quando sono arrivata lì avevo 16 anni e lui mi ha insegnato davvero tantissime cose, diventando un secondo padre. Sarò sempre legata a tutte le compagne della nazionale con cui ho condiviso molte esperienze, e sono ancora in contatto con Lana Scuka e Sara Najdič. Inoltre, è stato un grande onore lavorare con Massimo Barbolini, straordinario sia come allenatore sia come persona“.  Ci parli della sua esperienza a Novara.  “Un’esperienza incredibile. La Igor Volley è una grande famiglia, una società con un’organizzazione meravigliosa, dove mi sono trovata benissimo. Sapevo di non essere una titolare, ma ogni volta che sono entrata in campo ho dato il massimo. Alla fine, è stata una stagione positiva nonostante la chiusura anticipata a causa della pandemia. Perciò, tutto quello che posso dire è: grazie Novara. Inoltre, ho avuto l’occasione di giocare al fianco di giocatrici straordinarie come Stefana Veljkovic, Cristina Chirichella e tutte le altre compagne che seguo ancora e sono rimaste nel mio cuore“.  Ha fatto parte per alcuni anni della nazionale slovena. Cosa manca a questa selezione per colmare il gap con le big della pallavolo mondiale?  “Forse mancano giocatrici che vanno a fare esperienza all’esperienza all’estero, soprattutto nei campionati di alto livello. In generale, penso che le buone generazioni vanno e vengono: quella di cui ho fatto parte può ancora regalarsi buone soddisfazioni“.  C’è qualche talento sloveno che consiglia ai club italiani?  “Non conosco così bene le giocatrici più giovani, quindi è difficile rispondere a questa domanda. Tuttavia, sono sicura che le migliori avranno modo di mostrare le proprie qualità nelle competizioni internazionali e così verranno sicuramente notate anche in Italia“. LEGGI TUTTO

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    Francesca Ferretti: “Si è aperta una porta, ora più tutele per le mamme atlete”

    Di Redazione
    Negli ultimi mesi ha raccontato per Volley NEWS le problematiche, ma anche le gioie delle mamme atlete, con le interviste a Martina Guiggi, Serena Ortolani e molte altre. Ora che il tema è letteralmente esploso a livello mediatico, grazie al clamore suscitato dalla denuncia di Lara Lugli, non potevamo non interpellare Francesca Ferretti, grande campionessa azzurra e lei stessa orgogliosa rappresentante della “categoria” delle madri giocatrici. Ecco la sua intervista sulle tutele per le atlete in gravidanza e su molto altro.
    Francesca, ormai nel mondo della pallavolo non si parla d’altro che del caso Lugli…
    “Ne abbiamo parlato anche nella mia squadra, perché si dà il caso che con me giochi Valentina Trevisan, la nipote di Lara! Sul tema innanzitutto va fatta chiarezza: Lugli non ha imputato alla società la rescissione automatica del contratto per gravidanza – che abbiamo sempre accettato, forse sbagliando – ma il mancato pagamento dello stipendio e la successiva citazione per danni. Cosa che trovo veramente assurda: considerare la gravidanza un danno è un insulto per chi non riesce ad avere figli, e le parole scritte nell’atto di citazione sono inaccettabili. Sono cose che, oltretutto, dovrebbero rimanere private, e che comunque sono state accettate da entrambe le parti al momento della firma“.
    Adesso, però, il tema è sulla bocca di tutti e finalmente si ritorna a discutere anche di tutele. Cosa ne pensi?
    “Si è aperta una porta, anzi un portone: spero che possa essere d’aiuto per le pallavoliste che si metteranno su questo cammino in futuro e per i tanti casi passati che erano rimasti lontani dai riflettori. Non è giusto, tra le altre cose, dover preannunciare alla società la propria intenzione di rimanere incinte“.
    Ma in che direzione si potrebbe agire?
    “Bisogna partire a monte, perché tanto per cominciare non siamo tutelate dal punto di vista lavorativo, i nostri contratti hanno davvero poco valore. Lo dicono i tanti casi in cui giocatrici e giocatori non sono stati pagati, per ragioni diverse. È chiaro che le donne hanno problemi ancora maggiori rispetto agli altri: qualcosa si è mosso con l’introduzione del fondo per la maternità, ma non basta“.
    Anche tu sei diventata mamma, sia pure alla fine della carriera. Come è stata la tua esperienza?
    “Per me è stato diverso, io desideravo un figlio ma avevo già deciso di smettere. Non ho mai preso in considerazione l’idea di provarci mentre giocavo, non mi sembrava giusto. Mi sarei sentita abbastanza a disagio nel farlo durante la stagione, se poi fosse capitato inaspettatamente sarebbe stato un altro discorso. È una questione piuttosto complessa, noi lavoriamo con il nostro corpo e dobbiamo metterlo in conto. Credo però che resti un diritto dell’atleta e spero che se ne parli sempre di più, perché senz’altro capiterà ancora“.
    Cambiamo argomento: da qualche tempo hai ripreso a giocare con l’OSGB Volley di Campagnola Emilia, in B2. Come sta andando?
    “Diciamo bene, a parte i problemi legati alla pandemia. Ci stiamo allenando regolarmente, anche se non si possono fare grandi programmi per il futuro: la partita di sabato prossimo, ad esempio, l’abbiamo dovuta rinviare, e nel nostro girone ne sono saltate già 5. C’è anche il problema di definire le date dei recuperi, perché non siamo in serie A e le giocatrici hanno altri impegni. Non so se riusciremo a finire regolarmente la stagione: il mio allenatore è pessimista, ma lui lo è sempre…“.
    Dal punto di vista organizzativo, che problemi comporta essere mamma e atleta?
    “Mi trovo bene, l’impegno richiesto è quello giusto per permettermi di organizzare la mia vita. Abbiamo 3/4 allenamenti alla settimana, tutti in zona. È chiaro che comunque bisogna fare sacrifici: gli allenamenti finiscono tardi, torno a casa alle 22.30 e mio marito è fuori, quindi ho dovuto chiedere ai miei genitori di darmi una grossa mano“.
    Per il resto com’è stato il tuo ritorno in campo?
    “Sono molto contenta: mi mancava l’ambiente, lo spogliatoio, tutto. Anche soltanto fare due risate con le compagne di squadra, visto che frequentarsi nella vita quotidiana è così problematico. L’allenamento è un grande aiuto per staccare la spina, sfogarsi un po’ e non buttarsi troppo giù in questo periodo così difficile. Fisicamente sto abbastanza bene. Mi dispiace solo che non sono ancora riuscita a portare alle mie partite né mio figlio, né i nonni: giustamente, rispettiamo l’obbligo delle porte chiuse“.
    E a un futuro nella pallavolo, ci pensi?
    “È il mondo in cui sono nata e mi sono formata, ovvio che non mi dispiacerebbe restarci, anche perché ho costruito tante amicizie e legami in questo ambiente. Le caratteristiche potrei anche averle: non mi vedo molto nel ruolo di allenatrice, non mi sento portata, ma magari potrei fare il team manager, conoscendo bene le esigenze delle giocatrici. Ho provato anche a fare da commentatrice per la Lega femminile in qualche partita, e mi piacerebbe riprovare, chissà (Francesca è modesta, ma anche la sua “carriera” da giornalista si è avviata benissimo… n.d.r.)”.
    Ultima domanda: come vedi la nostra nazionale in vista delle Olimpiadi di Tokyo, che a quanto pare si svolgeranno regolarmente? Avremo problemi dopo due anni senza gare internazionali?
    “Non credo, sinceramente. Il nostro gruppo era molto affiatato e sicuramente non cambierà molto, basteranno un po’ di allenamenti per ritrovare l’intesa. Poi, ovviamente, ci vorrà qualche test contro alte nazionali. Sicuramente ci siamo fermati sul più bello, con una squadra che stava crescendo e che credo possa fare benissimo almeno per altri 4 anni, se non di più: abbiamo giocatrici veramente fortissime“. LEGGI TUTTO

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    Maria Segura fa la differenza in Bundesliga: “La pallavolo tedesca è in grande crescita”

    Di Alessandro Garotta
    Il netto processo di crescita che l’Allianz MTV Stuttgart ha avuto nel corso degli ultimi anni è sostanziale. Un risultato frutto senz’altro di serietà, organizzazione, programmazione e concretezza che questa società ha dimostrato di avere come punti cardine. La crescita totale, però, la si può percepire anche e soprattutto sul campo, dove l’orchestra attualmente diretta da Tore Aleksandersen funziona egregiamente, basandosi su una moderna concezione della pallavolo. 
    Tra le fila di questa ambiziosa squadra tedesca c’è anche una vecchia conoscenza del nostro campionato, divenuta nel giro di poco tempo un fattore determinante, attraverso punti, giocate difensive ed una costante maturazione, che l’hanno posta fra le schiacciatrici più decisive in Bundesliga: stiamo parlando della spagnola Maria Segura Pallerès, che si è raccontata in esclusiva ai microfoni di Volley NEWS.
    Maria, come si trova all’Allianz MTV Stuttgart e perché ha scelto di intraprendere questa esperienza in Germania? 
    “Allo Stuttgart mi trovo molto bene. La società ha un’organizzazione meravigliosa e da questo punto di vista è una delle migliori in cui sono stata. Ho scelto di giocare in Germania perché la mia precedente esperienza (al Dresdner SC nella stagione 2018-2019, n.d..) era stata positiva e soprattutto per la prospettiva di giocare ad alti livelli, lottare per la vittoria dei trofei nazionali e misurarmi in Champions League“.
    Che livello ha trovato in Bundesliga?
    “È un campionato di buon livello. Ovviamente ci sono squadre più o meno forti, ma penso che le prime otto siano state costruite bene, tanto che a noi è capitato di perdere contro quelle a metà classifica. Penso che la pallavolo tedesca sia in crescita anche per la presenza di talenti interessanti che diventeranno presto protagonisti a livello internazionale“. 
    Dopo una fase di adattamento ai cambiamenti della rosa e al cambio di allenatore, la sua squadra occupa il primo posto in classifica. Avete la sensazione di essere in costante miglioramento? 
    “Certamente. Con il nuovo allenatore abbiamo modificato il nostro sistema di gioco, che è diventato molto più strutturato e veloce, e di correlazione muro-difesa. Questi cambiamenti ci hanno aiutato a crescere come squadra e ora siamo pronte a raccogliere i frutti del nostro lavoro nel finale di stagione“. 
    Qual è il vostro obiettivo stagionale? 
    “All’inizio i nostri obiettivi erano di vincere la Coppa nazionale e il campionato. Purtroppo, il primo non lo abbiamo centrato, essendo state eliminate in semifinale dal Potsdam. Quindi, ora dovremo riscattarci nei play off e confermare l’attuale primo posto. Volevamo fare un buon percorso anche in Champions e, nonostante l’eliminazione nella fase a gironi, ce la siamo giocata alla pari con avversarie di grande calibro – come la Dinamo Mosca, l’Eczacibasi e la Lokomotiv Kaliningrad – mettendo in mostra tutti i progressi della squadra“. 
    Foto Jens Körner/Allianz MTV Stuttgart
    A proposito, com’è stata la sua prima volta in Champions League? 
    “Giocare questa competizione era uno dei miei grandi sogni, che finalmente si è realizzato: è stata un’esperienza straordinaria e mi sono goduta davvero ogni momento. Peccato per la sconfitta nella gara di andata contro la Lokomotiv Kaliningrad, altrimenti avremmo potuto ambire ai quarti di finale. In ogni caso, siamo soddisfatte di quello abbiamo fatto in Europa“. 
    Per ben sei volte è stata nominata MVP: pensa che questa possa esser la stagione del suo definitivo salto di qualità? 
    “Non avrei mai potuto vincere così tante volte il titolo di MVP senza il contributo delle mie compagne: una parte del merito è da attribuire a loro. Sono molto contenta delle mie performance e ormai ho acquisito la consapevolezza di essere una giocatrice esperta e completa, che può dare un contributo alla propria squadra in ogni fondamentale. Non so se ho raggiunto il culmine della mia maturazione come giocatrice, dal momento che si può sempre migliorare, ma probabilmente sono un po’ più vicina“. 
    Facciamo un passo indietro. Qual è stato il momento più bello che ha vissuto nelle sue esperienze in Italia? 
    “È difficile sceglierne soltanto uno perché ogni stagione è stata meravigliosa e allo stesso tempo diversa dalle altre. Infatti, mi è capitato di giocare in Serie A2 e puntare alla promozione, ma anche di lottare per la salvezza o per raggiungere i playoff in A1. Per esempio, la stagione a Monza è stata davvero speciale perché ho realizzato il sogno di giocare nel massimo campionato italiano. Ma non dimentico nemmeno la prima volta lontano dalla Spagna con Olbia in A2, così come le esperienze a Cuneo e Trento, dove ho sfiorato la promozione facendo parte di gruppi straordinari. E ovviamente è stata positiva anche la scorsa annata a Brescia, visto che prima dell’interruzione stavamo centrando l’obiettivo salvezza“. 
    Foto Volley Millenium Brescia
    Come vede il campionato italiano quest’anno? 
    “Per me la Serie A1 rimane uno dei campionati più belli e competitivi in assoluto. Ci sono tante squadre ben strutturate che stanno giocando su ottimi livelli. Ovviamente Conegliano è la grande favorita per la vittoria di Scudetto e Coppa Italia, e probabilmente se la giocherà con il VakifBank in Champions League“.
    Quali sono i suoi sogni per il futuro? 
    “Vorrei continuare il processo di crescita, e diventare una giocatrice sempre più forte e importante per la mia squadra. Mi piace giocare una pallavolo veloce come quella che stiamo mettendo in mostra, quindi spero di restare allo Stuttgart anche nelle prossime stagioni e magari vincere qualche titolo“.
    Un proverbio spagnolo recita: “Come a casa, da nessuna parte“. Le piacerebbe tornare a giocare in Spagna un giorno?
    “Onestamente la considero una prospettiva per il futuro a lungo termine perché al momento voglio giocare ad alti livelli: il campionato spagnolo non è paragonabile a quello italiano o tedesco“.  LEGGI TUTTO