“La gente della Mongolia è splendida, se bussi ad una porta, anche di una casa isolata nel nulla, ti aprono e ti fanno entrare. E se sei straniero non fa differenza”. Se non ci fosse quella gente, il paradosso di Omar Di Felice sarebbe un incubo. E’ arrivato a Ulan Bator, la capitale, il 24 febbraio, da lì il 3 marzo è partito per farsi oltre 2000 km in bicicletta. Finita la ‘passeggiatà vi è tornato ma è ancora lì, bloccato dall’emergenza coronavirus. Omar come lavoro fa il ciclista estremo, è campione di ultracycling, ma a volte gli avversari non gli bastano ed allora punta il dito contro se stesso.
Sceglie di attraversare il deserto del Gobi, un orizzonte infinito, magico ma ostico come la roccia. ”Messner lo ha fatto in piedi in primavera, ma aveva detto che in inverno sarebbe stata una pazzia”. Pazzia è stata, ma ne è valsa le pena: ”Gran parte della popolazione è concentrata a Ulan Bator, per il resto di gente se ne trova poca. Nel deserto avrò incontrato 4 persone…”. Omar vive di sponsor, nelle sue imprese ha solitamente un pool di persone al seguito. Stavolta no: ”Ho visto jeep abbandonate in quanto ripararle era impossibile, teschi di animali qua e la, scene anche spettrali”.
Ciclismo, l’impresa di Omar Di Felice: il deserto del Gobi in solitariaCondizioni troppo estreme, giusto andare da solo: ”Ho dormito quasi sempre in tenda. Una notte mi hanno ospitato nel retro di un piccolo supermercato, un’altra volta ho trovato un ostello, di fatto una stanzetta con una stufa…”. Tutto messo in preventivo senza batter ciglio: ”Difficile trovare acqua potabile, raramente è calda, il bagno è all’esterno delle abitazioni, ma per me non è un problema”. Non in preventivo invece il Covid 19. ”A metà del percorso scatta il lockdown. Avevano trovato un francese sospetto positivo a 300 km da dove mi trovavo”.E arriva il momento in cui il viaggio di trasforma in un film di spionaggio, di quelli in cui il protagonista stenta a trovare l’uscita: ”Per la Mongolia il virus e una cosa solo cinese e italiana. Mi intercetta una pattuglia di militari, con loro anche un’ambulanza. Non parlano una parola di inglese, voce alta, parole frequenti delle quali non ne colgo una. Ammetto che in quel momento l’ho vista brutta. Mi sono chiesto. E ora chissà che esami mi faranno?”. Poi tutto si risolve: ”Per fortuna a pochi km c’era il mio unico punto di riferimento, la guida, che chiarisce. E il tampone a cui vengo sottoposto all’ambulatorio di Dalanzadgad, loro lo chiamano ospedale, tranquillizza me e gli altri”.
Cinque giorni di stop, (dall’11 al 16), poi il 20 impresa compiuta. ”Il momento più bello è quando i pastori mi hanno ospitato nelle loro tende. Abbiamo mangiato è bevuto vodka, molta…”. Un angolo immobile del mondo, ma anche il mondo che c’è intorno si adegua suo malgrado. E’ ferma la Turkish Airlines, uno degli sponsor, doveva provvedere al viaggio di ritorno. Omar coglie l’occasione per farsi qualche altro tratto in bici, torna nella capitale ed aspetta. ”Da Seul partiva un volo internazionale, mi sono prenotato ma poi salta. Bisognava essere almeno in dieci. A conti fatti meglio, in Corea avrei dovuto fare una quarantena più pericolosa che in Mongolia”. In parecchi la pensano così: ”Gli stranieri in Mongolia ci stanno per affari, spesso commerciano in cashmere, preferiscono aspettare qui che la bufera passi…”. Anche Omar ne fa le ‘spese’: ”Ho trovato un accordo con un albergo, mi costa circa 25 dollari al giorno”. Non resta che aspettare e sperare, pronto a cogliere l’attimo per rientrare in Italia. Ancora non è successo ma per fortuna ”…la gente della Mongolia è splendida”.