Con il tennis Pro fermo, il russo Daniil Medvedev approfitta per raccontare alcuni passaggi della sua storia sulla bella pagina Instagram “Behind the Racquet”. Il progetto, ideato dal tennista USA Noah Rubin, ha raccolto molti consensi, con tanti tennisti e tenniste che hanno pubblicato una foto del proprio volto “dietro la racchetta” parlando nel post delle difficoltà della vita di un giocatore, problemi personali, paure e successi, il tutto con grande spontaneità e senza filtri.
Ecco le parole di Daniil, focalizzate sul difficile passaggio dal tennis giovanile a quello Pro, i problemi economici, le aspettative di una vita incerta.
“C’è sempre stato da discutere tra mio padre e mia madre. Mia madre voleva che studiassi di più, motivo per cui sono rimasto a scuola mentre giocavo a tennis fino a 18 anni. In Russia la maggior parte degli atleti professionisti termina gli studi a circa 12 anni. Quello potrebbe essere stato il motivo per cui non ero bravo come i miei compagni per un nel po’ di tempo, ma non ho rimpianti.
Ci sono stati molti momenti difficili prima dell’aiuto della federazione e degli sponsor, quando non c’erano abbastanza soldi. Ci sono state partite in cui ho perso e tutto quello a cui pensavo dopo la sconfitta erano i 100 dollari in più che avrei potuto guadagnare.
Il periodo più difficile per me è stato il passaggio da junior a professionista. Ho terminato a soli a 13 anni il percorso nel mondo del tennis junior. Ho iniziato a capire rapidamente, dopo aver giocato i primi Futures, quanto sarebbe difficile passare da 700 a 300 nel mondo. Avevo bisogno di mettere da parte quanti più soldi potevo mentre cercavo di vincere cinque o sei Futures, il più rapidamente possibile. All’epoca ero perso, non sapevo come avrei potuto farcela perché c’erano così tanti altri giocatori che cercavano di fare la stessa cosa.
Ricordo di aver parlato con Bublik, giocavamo un Futures a trenta minuti da dove vivevo in Francia. Ero intorno alla posizione n.700 in classifica, e gli ho chiesto: “Come si può diventare n.300, sembra impossibile?” Ricordiamo ancora oggi quella battuta, ci scherziamo sopra quando ci vediamo, “Dai, visto che siamo diventati 300?!”.
Anche dopo aver raggiunto la top 100 per la prima volta, sapevo che non ero ancora un vero professionista. Quando ero in campo avrei dato il 100%, ma fuori dal campo non facevo le cose giuste. Sarei andato a letto tardi, giocavo ore alla PlayStation e non mi preoccupavo delle piccole cose. Il salto dal n.70 ai primi 5 al mondo è stato quando ho davvero deciso di dedicare tutto me stesso al tennis. Volevo finalmente trovare i miei limiti. So che la gente dice che non ce ne sono, ma voglio mettermi alla prova e trovare il mio. Quello è stato il momento chiave per me. Ricordo che prima di quel grande salto se giocavo una partita lunga avrei perso il giorno successivo solo perché non sarei riuscito a muovermi. Se chiedi a qualcuno dei ragazzi che mi conoscono da sempre, direbbero che ero uno dei giocatori con la peggiore forma fisica in assoluto, a volte avvertivo crampi dopo soli trenta minuti …”
Marco Mazzoni