“Strange fruit”. Il frutto strano, cantato magistralmente da Billie Holiday per la prima volta nel 1939, era appeso anch’esso agli alberi, ma non era un frutto: era il corpo di un afroamericano che penzolava lentamente da un grosso ramo. Se ne contavano a migliaia in quegli anni, e nei decenni a seguire, nell’America del Sud violenta e razzista.
Ecco, la grandezza di Bill Russell, straordinario pivot che con Boston diede vita ad una impareggiabile dinastia vincente grazie agli 11 anelli NBA, risiedeva nel suo fisico possente, nella capacità di stoppare chiunque gli capitasse a tiro, nella clamorosa media rimbalzi (22,5). Ma Bill “The Hill” è stato anche uno degli atleti di colore che più ha lottato, non solo a parole, contro quel razzismo da cui i genitori avevano tentato di tenerlo lontano, trasferendosi dalla natia Louisiana alla California. Proprio ad Oakland, ad appena nove anni, Russell ricevette una lezione che cambiò la sua vita.
Era nei pressi dell’edificio in cui viveva, quando cinque ragazzi gli corsero dietro e lo circondarono. Uno di loro lo prese a schiaffi in faccia. Bill andò a chiamare la madre, che scese nel cortile assieme a lui per cercare quelli che lo avevano aggredito. Una volta trovati, il piccolo si mise ad aspettare che la mamma facesse giustizia al posto suo. Invece Katie Russell lo guardò dritto negli occhi e gli disse con voce calma: «Combatti contro di loro, uno alla volta». Bill obbedì: vinse due sfide, ne perse tre.
Quell’odio lo aveva dunque raggiunto anche ad Oakland, dove in seguito iniziò a dominare sotto canestro. Quante volte, con la maglia dei S. Francisco Dons, erano gli anni 50, era stato raggiunto dalle ingiurie dei tifosi avversari, quante volte in trasferta gli hotel avevano rifiutato a lui e ad altri due compagni afroamericani una stanza e un tavolo al ristorante. E’ stato allora che Russell aveva iniziato a non essere solo un atleta, ma anche un simbolo, un leader che lottava per i diritti di chi, sino a poco tempo prima, spesso finiva per diventare uno “strano frutto”.
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Boston
Così, quando nel 1956 entrò nei Celtics, ecco che iniziò a combattere. Quando l’albergo di Lexinton gli negò l’accesso al bar e al ristorante, insieme con KC Jones lasciò la squadra per dare un segnale forte. Tornato in campo, sfogò la sua rabbia diventando il più forte pivot dei suoi tempi: vagonate di rimbalzi (in un unico incontro ne prese 51), punti, stoppate, trasformando i Celtics del mitico coach Red Auerbach nella migliore squadra NBA di sempre, o almeno la più vincente. E dando vita con l’immenso Wilt Chamberlain, mister 100 punti, a sfide leggendarie.
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Ali
Senza però mai dimenticare la lotta al razzismo. Nel 1963 marciò su Washington per difendere i diritti dei suoi fratelli. Nel 1967 partecipò a Cleveland ad un incontro che vide assieme per la prima volta i più conosciuti sportivi americani dell’epoca: Russell, Muhammad Ali, Jim Brown (ex NFL), Kareem Abdul Jabbar. Tutti fecero sapere al mondo che avrebbero iniziato una forte e determinata guerra al razzismo. «Lascerei i Boston Celtics senza esitazione se questo contribuisse al movimento dei diritti civili. Non ci sarebbe altra scelta, è il dovere di ogni cittadino americano lottare per una causa in cui crede fermamente».
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Medaglia
Bill, il numero 6, non smise di vincere neppure quando prese il posto del Rosso Auerbach sulla panchina dei Celtics, conquistando due titoli. Un mito sul campo, ancora di più fuori, tanto è vero che nel 2011 Russell ricevette dalle mani di un emozionato Barack Obama la “Medaglia presidenziale della libertà”, altissima onorificenza che viene assegnata solo a chi «ha dato un contributo meritorio speciale per la sicurezza o per gli interessi degli Stati Uniti, per la pace nel mondo, per la cultura o per qualsiasi iniziativa pubblica o privata». No, Russell non è stato esclusivamente una leggenda del basket. E’ stato un leader dei movimenti di protesta in anni terribilmente difficili per gli afroamericani, quando forse per uno sportivo ricco e famoso sarebbe stato molto più facile tacere. Bill non lo ha mai fatto.