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    Quartararo: “Le Ducati? Altro pianeta. Io e la Yamaha resistiamo”

    Nemmeno la sua moto l’aiuta.«Sento che ci sia qualcosa di strano nella M1, il limite è poco avvertibile e il cento per cento lontano. Ci stiamo provando, ma la moto ha perso d’efficacia nelle curve, di conseguenza ho perso fiducia. Mugello a parte, i tempi registrati sono simili ai riferimenti 2022. Il problema è che gli altri hanno migliorato, mentre noi siamo rimasti fermi. Gli avversari sono andati avanti, mentre noi ci arenavamo».
    Situazione simile vissuta da Marc Marquez e Honda. O sono momenti diversi?«Eviterei di affermarlo. Tra la M1 e la RC213 V ci sono differenze, vantaggi per una e svantaggi per l’altra. Per esempio, in Honda soffrono di confidenza all’anteriore e improvvisi sbalzi causati dal posteriore. In Yamaha non soffriamo così, a noi mancano potenza e capacità di voltare rapidi e precisi. Chiaro, la tecnica è una cosa. La pratica dice quanto e come pure Marc stia patendo».
    Nel progetto Yamaha trova comunque note positive? «Sì, in termini di potenza e numero di cavalli abbiamo compiuto un passo avanti, tuttavia poco percettibile rispetto a quanto fatto dalla concorrenza. D’accordo, durante il GP Italia ho toccato i 360 chilometri orari nel lungo rettilineo, ma grazie alla scia offerta da chi mi precedeva. Le moto avversarie tagliavano l’aria, io ne approfittavo».
    A proposito di aria: Ducati e il resto dei competitor monta ali maggiorate.«Maggiorate se paragonate alle appendici Yamaha. L’aerodinamica funziona in maniera particolare: più si va forte, meglio lavora. Senza potenza, l’utilizzo della sezione aerodinamica è limitato, cioè, quanto sta accadendo a noi».
    Il suo impegno è al pari del lavoro compiuto da Yamaha? «I giapponesi si stanno rivelando interessati alla MotoGP, e lo spiego con una immagine: ci sono tanti nuovi ingegneri spediti da Iwata nel paddock, ma hanno bisogno di tempo. Yamaha sta lavorando sodo oggi, e lo fa programmando il futuro. Chiaro è che il frutto arriverà i prossimi anni, sebbene io stia spingendo per avere un netto cambio di tendenza. Credo non prima del 2024. Io insisto, mica mi tiro indietro».
    Una valida offerta contrattuale da parte di Case diverse la farebbe tirare indietro?«Offerta? Non ho ricevuto alcuna proposta e, se le avessi avute, sarei rimasto a vestire gli abiti Yamaha sino a fine 2024. Sono focalizzato su questo progetto e, malgrado stia vivendo un momento di carriera difficile, sono convinto della scelta».
    Tornando a Marquez, ha detto di voler preservarsi, evitando rischi inutili e infruttuosi. «Gli infortuni li evito volentieri anche io, malgrado quanto accaduto facendo jogging (ride, ndc). Vorrei lottare per posizioni di vertice, oggi lontane per noi. Allora, che faccio? Rischio di cadere, cercando il cento per cento? No, meglio di no. Io spingo al massimo, a volte azzardando mosse particolari. Al Sachsenring abbiamo montato la gomma posteriore morbida, a mò di scommessa: non ha funzionato, qunidi cosa cambia arrivare tredicesimo o dodicesimo?». 
    Nulla, diremmo. «Esatto. Le Ducati viaggiano su un pianeta diverso, sia prestazionalmente che in numero di moto. Qui abbiamo poche M1, siamo in due con Franco Morbidelli. A noi servirebbe un team satellite col quale condividere dati, Ducati ha otto moto e squadre in perpetuo collegamento. Tutti i piloti equipaggiati Desmosedici vanno forte, le informazioni scambiate sono incredibili e preziose. Mica si inventano chissà cosa». 
    Lei può inventarsi qualcosa?  «Ci proverò, sebbene sia onesto dire che questo sia il momento più duro da quando corro in MotoGP. Magari non sto attraversando il periodo più nero, ma mi sento frustrato. Quello sì». 
    Non può piovere per sempre. «Probabilmente, in condizioni di bagnato e con tanta acqua nel weekend andremmo meglio. Saremmo sicuramente efficaci, vicini al gruppo di testa o, addirittura, nel gruppo di testa. Lo abbiamo visto in Argentina. Però c’è un problema: mica mi metto a fare la danza della pioggia».  LEGGI TUTTO

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    Bagnaia e un titolo da difendere: “Così voglio fare la storia”

    È entrato nella stessa frase di Giacomo Agostini, Valentino Rossi e Casey Stoner, il desiderio è fare altrettanto con Mick Doohan – ultimo campione della classe regina “indossando” il numero 1 – ma alla vigilia del Mondiale 2023 Pecco Bagnaia si accosta ad altri giganti dello sport. Come Christian Eriksen, Tiger Woods, Klay Thompson, Annemiek Van Vleuten e Jakob Ingebrigtsen. La nomination per i Laureus World Sports Awards – categoria “comeback of the year” (lett. ritorno dell’anno) – pone il campione in carica della MotoGP in quella che lui stesso definisce una «lista degna di un Oscar. Per me è un grande onore». Il concetto di ritorno è ampio, se è vero che passa dal dramma a lieto fine di Eriksen – tornato in campo dopo essere tornato a vivere – al calvario di Woods e di quel Thompson che Pecco, da grande appassionato di basket (NBA, ma ora è spesso a vedere la serie A a Pesaro), ha seguito da vicino. Il suo, di ritorno, il torinese l’ha compiuto nella classifica della MotoGP, lasciando gli inferi del -91 da Fabio Quartararo per laurearsi campione della classe regina con la Ducati. Un titolo che il 26enne difenderà da domani, con le prime prove libere del GP del Portogallo, il primo di una MotoGP carica di novità. Tra queste, però, non sembra esserci il trend in vetta alla classe regina, poiché Bagnaia e la Ducati arrivano al Mondiale dopo l’entusiasmante passo mostrato nei test, tale da terrorizzare la concorrenza. Nuova Ducati, nuovo numero, è anche un nuovo Pecco quello che si appresta a vivere il primo GP con la corona in testa? «Nella vita di tutti i giorni non è cambiato granché, faccio le stesse cose. A livello sportivo è cambiata la consapevolezza: sotto quell’aspetto, sì, lo scenario è differente». Attenzione a dire che nella vita di tutti i giorni non è cambiato granché, altrimenti la sua fidanzata si arrabbia… «Sì, è vero, pochi mesi fa io e Domizia abbiamo annunciato il matrimonio». Aveva lasciato la data in sospeso. «Ora ce l’abbiamo: luglio 2024». Scherzando, c’è il rischio che senza il numero 1 sul cupolino salti tutto? «No (sorride), però farò di tutto per avere quel numero anche nel 2024». Quanto cambia lo scenario ora che ha “scoperto” la strada che porta sul tetto della MotoGP? «Le cose sono differenti, in effetti, anche perché il titolo è arrivato dopo un campionato veramente tosto. Un anno fa, arrivammo al primo GP partendo da una situazione critica, eravamo preoccupati per le prestazioni della moto. E infatti impiegammo alcune gare per approdare alla situazione voluta. Oggi, la vigilia è all’opposto, non c’è paragone, e questo anche per merito della GP23, che si è subito mostrata perfetta per il mio stile di guida».
    La GP23 ha già superato la GP22 del titolo? «Per certi aspetti mi piace di più rispetto alla moto dello scorso anno. Ci sono tutti i presupposti per iniziare bene: a Portimão riesco a essere sempre veloce». Come dieci giorni fa nei test: alla concorrenza ha lanciato un messaggio forte. «Ho conosciuto la nuova versione della Ducati in Malesia, a inizio febbraio. Sulle prime non è stato tutto semplice, ma nel corso dei tre giorni di Sepang il miglioramento è stato enorme. Al punto che nei due giorni a Portimão ho potuto spingere dall’inizio alla fine, come accade raramente nei test. È stata una sessione perfetta e ora, con il grosso del lavoro già svolto, posso davvero concentrarmi sui dettagli per la gara. Anzi, le gare». La Sprint del sabato pomeriggio raddoppia le partenze e lo stress: qual è il suo giudizio? «La Sprint è il più grande cambiamento mai conosciuto nella mia esperienza nel Mondiale. Sono curioso di vedere come sarà, perché in gara non sempre puoi spingere dall’inizio alla fine, qui invece con pochi giri potresti farlo. Io di solito sono bravo in partenza e veloce nei primi giri…». Ventuno GP e 42 partenze stagionali: è troppo? «Anche qui, vorrei prima provare per giudicare. Penso sia complicato soprattutto a livello mentale, perché fisicamente siamo tutti preparati per uno sforzo del genere. Credo sarà difficile mantenere alta la concentrazione per così tanto tempo, soprattutto in una seconda parte di stagione che non concederà tempo per tirare il fiato».
    Si ricorda l’ultimo vincitore della classe regina con il numero 1? «In MotoGP si sono ripetuti solo Valentino e Marc Marquez, ma non hanno mai usato quel numero… Riflettendo direi Mick Doohan, giusto?».
    Esatto, nel 1998. Un lungo digiuno, però lei ha interrotto un sortilegio di 50 anni per un campione italiano su moto italiana. «Vincere è difficile, ripetersi lo è anche di più. Ma chi si ripete resta nella storia: più che un peso, il numero 1 è un grande stimolo». Quali consigli le ha dato il suo mentore Rossi? «Mi ha detto di rimanere tranquillo e continuare a fare ciò che ho fatto. Voglio concentrarmi su me stesso, e lavorare sulle lacune».
    In passato i giudizi via social le davano fastidio, ora come reagisce di fronte a chi dice che vince grazie alla Ducati? «Ho capito che non si può piacere a tutti. Valeva persino per Rossi e Marquez: qualcuno diceva che vincevano grazie alla Honda. Ci sarà sempre un 10% di detrattori, non puoi farci niente. Credo di aver imparato a dare il peso giusto: conta vincere, perché nella storia restano i titoli e, con tutto il rispetto, non i commenti». E poi le Ducati in griglia sono otto, con la condivisione della telemetria. «A volte è buono per me, in altri casi mi rende le cose più difficili. Magari il sabato sono più veloce degli altri, poi in gara mi ritrovo con più di un parimarca con un gran passo. Però certe volte ero io a essere in difficoltà, e sono stato aiutato dalla condivisione dei dati, che è una forza della Ducati. È una sfida in più per me, essere primo tra i ducatisti è già un obiettivo importante”. Quest’anno nel box c’è un compagno diverso, più arrembante, e connazionale… «Io ed Enea Bastianini ci sfidiamo dal 2006, è uno dei più grandi talenti contro cui ho corso, è stato velocissimo in ogni categoria. Ora siamo compagni di team, finora abbiamo collaborato bene, poi è chiaro che con l’inizio delle gare le cose possono un po’ cambiare, poiché entrambi vogliamo vincere. L’importante è che l’atmosfera nel box rimanga così: battagliare in pista con rispetto è possibile». Lei è ufficiale Ducati da due anni, per Bastianini è la prima esperienza: si sente in vantaggio a livello di esperienza? «Credo che Enea farà presto ad acquisire il metodo richiesto. Il salto dal team satellite a quello ufficiale lo senti, perché capisci che il tuo lavoro cambia le sorti di una moto, nel bene o nel male. Secondo me nei test ha lavorato bene, facendo ciò che doveva, e me l’aspetto subito davanti». Enea è il primo rivale nella corsa al titolo? «Indico anche Fabio Quartararo e Marc Marquez, è inevitabile. I test, magari, hanno esaltato la Ducati ma in inverno non sai mai cosa fanno gli altri, e poi anch’io l’anno scorso ero indietro all’inizio, poi sono diventato campione. Ma la lista dei piloti competitivi è lunga: i quattro portacolori Aprilia, Jorge Martin, la coppia Ducati-Mooney VR46». Oggi è in nomination per il miglior ritorno: a quando la nomination per il premio Laureus “assoluto”? “Devo vincere qualche altro campionato. Per ora, sono felice di essere nella lista dei nominati per quello che è un vero e proprio Oscar. È buono per me e per il motociclismo, che cerca audience ora che Rossi non corre più. Valentino si è aggiudicato il Laureus, ci provo anch’io: del resto l’ho già imitato vincendo la MotoGP…”. LEGGI TUTTO

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    Petrucci: “Felice per Bagnaia che vince con la mia moto”

    Un anno fa di questi tempi si preparava per un’avventura completamente nuova, con la sabbia al posto dell’asfalto come terreno di gara, dando il via a un 2022 dove Danilo Petrucci ha essenzialmente sperimentato tutto: prima la Dakar, diventando il primo pilota capace di vincere sia una tappa del raid più famoso del mondo che una gara di MotoGP, poi l’esperienza di vita nel Motoamerica con Ducati e infine un ultimo tango – in Thailandia – proprio in MotoGP, in sella ad una Suzuki che di lì a poco avrebbe salutato la top class. Oggi Petrucci si trova nuovamente a sfidare l’ignoto, ma con qualche certezza in più. Il debutto nel mondiale Superbike infatti lo riporta nel paddock che lo ha lanciato, tra l’altro con lo stesso team – Barni – che gli permise nel 2011 di mettersi in luce, spiccando poi il volo verso la MotoGP. Nel presente del ternano c’è l’obiettivo di incrociare le traiettorie con Alvaro Bautista, fresco campione Superbike in sella alla Ducati, dopo aver conosciuto molto bene l’altro ducatista campione nel 2022 ossia Pecco Bagnaia, al quale in due occasioni – Pramac prima e Ducati ufficiale poi – ha lasciato la propria moto.
    Petrucci, il suo 2022 è stato un anno da ricordare. «Il 31 dicembre ho dormito in una tenda a 40 metri dal bivacco, causa Covid. Il primo gennaio è partita la mia prima Dakar, dalla quale sembra passato un secolo (ride ndr): è stata una esperienza fantastica, che mi ha regalato tanto. Dare gas per ore e ore in mezzo al nulla è un qualcosa di incredibile. Ho iniziato l’anno nel deserto e l’ho terminato con una gara di enduro, dopo il MotoAmerica e la MotoGP: è stato un lungo viaggio. L’unico cruccio è non aver vinto il titolo negli Stati Uniti, ma essenzialmente non c’è mai stata una vera lotta tra me e Gagne».
    Quali momenti dell’anno porta nel cuore? «Certamente la Dakar, anche grazie al fatto di essere diventato il primo pilota in grado di vincere una tappa oltre alla MotoGP. Mi porto nel cuore anche le due vittorie di Austin, dopo le quali ho trovato quasi tutto il paddock ad aspettarmi al parco chiuso, cosa che mi ha davvero riempito di gioia. Anche la gara con la Suzuki è da ricordare: fare tutto così in fretta, lavorare con i giapponesi e provare la moto, tutto bellissimo».
    Le manca più la MotoGP o la Dakar? «Tutte e due (ride ndr). Sono due esperienze veramente toste: la Dakar è un campionato in due settimane. Quando ho iniziato a pensarci mi sono detto “sono lunghe due settimane, io mi rompo le scatole anche in vacanza dopo 10 giorni”, quindi il pensiero di guidare la moto per tutto quel tempo è stato impegnativo. D’altro canto anche nell’ultimo quarto d’ora delle gare in MotoGP sei esausto, e non è facile. Sono due manifestazioni al top del panorama motociclistico: mi mancano entrambe, ma la differenza è che nella Dakar potrei ancora essere competitivo, in MotoGP non credo».
    Nel corso dell’anno si è dimostrato un vero catalizzatore di attenzione. Se lo sarebbe mai aspettato? «Assolutamente no, e sono estremamente grato di questo. La MotoGP mi ha dato tanto, ma la Dakar mi ha fatto conoscere da tante persone diverse. Nel motomondiale i piloti diventano spesso personaggi, mentre alle persone piace più vedere il lato vero delle persone: io alla Dakar sono stato senza padroni, dicendo e facendo tutto quello che volevo, cosa che è piaciuta molto al pubblico. Sono contento di aver trasmesso qualcosa alle persone».
    La MotoGP ora celebra il suo nuovo campione Bagnaia. Come giudica la sua vittoria? «Con Pecco ho sempre avuto un bel rapporto: ha preso il mio posto per due volte, meritatamente, quasi scusandosi entrambe le volte anche se non c’ era bisogno. L’ho sempre seguito, sin dai tempi della Moto3, e dall’anno in Mahindra ha spiccato il volo, senza più fermarsi. Ha faticato solo un po’ al debutto: quest’anno ha avuto la miglior moto, è vero, ma lui l’ha sfruttata al massimo vincendo. Sono contento che abbia vinto la Ducati».
    Torniamo a lei. Come è maturata la scelta della Superbike? «Non è stata semplice. Negli Usa è stato bello, anche grazie alle persone che ho conosciuto, e mi dispiace non poco non poter ritentare di vincere il titolo. Ho deciso però di accettare l’offerta del team Barni, che conosco dal 2011, per diversi motivi: ho 32 anni, di conseguenza ho pensato che un’occasione così forse non mi sarebbe ricapitata in futuro. Non potevo rischiare di non disputare nemmeno un anno in Superbike, era qualcosa che mi mancava e che sono curioso di fare, anche perché è il campionato da cui provengo, pur senza aver mai fatto una gara nella top class». LEGGI TUTTO

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    Ferrari in alta quota: ecco le insidie a Città del Messico

    TORINO – I duelli ad alta quota sono un’incognita. A dire la verità, ogni anno che si corre a Città del Messico è così, l’altitudine si fa sentire, taglia potenza ai motori e influisce sul rendimento delle monoposto. Il punto è che la potenza dei motori viene tagliata in maniera uguale per tutti, dunque i valori generali in pista non vengono alterati. Invece, per quanto attiene il rendimento della auto, nonché il raffreddamento, ogni progetto può comportarsi in maniera differente. Specie quest’anno, che le monoposto sono completamente diverse da quelle dell’anno scorso.

    Sembra di essere a Montecarlo

    Lo spiega bene Thomas Bouché, head of aerodynamic track performance group della Ferrari: «La riduzione della densità dell’aria, dovuta all’altitudine cui si trova il tracciato, costituisce una delle più grosse sfide tecniche della stagione: le forze aerodinamiche sono considerevolmente ridotte e per questo ci ritroviamo con valori di carico paragonabili a quelli di Monza nonostante si utilizzi la configurazione di Monaco». E ancora: «Accelerazione e velocità di punta sono tra le più elevate della stagione. Questo quadro porta con sé alcune insidie non indifferenti per il raffreddamento di motore e freni: le vetture di Formula 1 attuali non sono state disegnate e ottimizzate per girare in condizioni così particolari, per questo tutti i parametri verranno continuamente curati e analizzati dell’intero weekend. L’aria rarefatta potrebbe anche incidere nei duelli ruota a ruota perché chi insegue potrebbe ritrovarsi in difficoltà per il fatto di guidare nell’aria sporcata dalla vettura che lo precede». Quali effetti potrà avere tutto questo sul duello – ormai non più decisivo per la classifica, nemmeno dei costruttori – tra Ferrari e Red Bull? Lo si potrà capire (almeno un po’) dalle prima prove libere.
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