Scatti da Fenomeno: i ricordi mondiali di Fiorenzo Galbiati
Di Eugenio Peralta
Nei giorni delle celebrazioni per il trentesimo anniversario dell’impresa azzurra a Rio, il primo oro mondiale della Generazione di Fenomeni, abbiamo avuto l’occasione di riascoltare tutti i protagonisti di quella leggendaria spedizione: giocatori, allenatori, membri dello staff, giornalisti, tifosi e appassionati. Tutti meno uno, l’unico capace di immortalare l’avventura del 1990 in una serie di immagini rimaste nella storia: Fiorenzo Galbiati, il solo fotografo italiano (e uno dei pochi in assoluto) a seguire dall’inizio lo storico Mondiale brasiliano.
Galbiati è una vera e propria istituzione nel mondo del volley: tutti lo hanno visto almeno una volta su un campo di pallavolo, tutti riconoscono la sua inconfondibile zazzera bianca e, soprattutto, tutti hanno ammirato i suoi scatti sui principali quotidiani italiani, ma non solo. Anche perché, negli ultimi 40 anni, è stato presente praticamente a ogni possibile evento: scudetti, coppe, Mondiali, Europei e ben 8 Olimpiadi consecutive, a partire da Barcellona 1992.
Abbiamo intervistato il fotografo milanese per ricostruire con lui una tappa indimenticabile del percorso del nostro sport, partendo da una domanda inevitabile: cosa ricorda di quel Mondiale?
“Poco. Dopo tanti anni i ricordi sbiadiscono, e ascoltando i giocatori ho potuto constatare che non è solo un problema mio… Però quello che mi viene subito in mente, più della finale, è la semifinale contro il Brasile. Il Maracanazinho strapieno di gente, musica, tifosi, un rumore assurdo: non eravamo abituati a palazzetti così, anzi non ne avevamo mai visti. Un’atmosfera affascinante, ma anche fastidiosa a livello lavorativo, perché non riuscivo quasi a muovermi. E poi la contentezza finale: un’emozione che ho vissuto in modo particolare, perché io sono uno che si tiene le cose dentro e poi non ho avuto tempo per vivere le feste successive“.
Foto Fiorenzo Galbiati
Quello che sicuramente Galbiati non dimentica sono le spese (diversi milioni dell’epoca) affrontate personalmente per organizzare quel viaggio:
“Ho deciso di fare questo investimento, che poi ho anche recuperato grazie alla vittoria, ma c’è voluto parecchio tempo. Diciamo che da una parte c’era entusiasmo per la vittoria agli Europei del 1989, dall’altra però gli ultimi Mondiali erano andati malissimo e non c’era garanzia di fare bene. Mi sono detto che non mi sarebbe più ricapitato, e nella peggiore delle ipotesi mi sarei fatto una vacanza in Brasile. In realtà poi gli azzurri, perdendo con Cuba nel girone eliminatorio, mi hanno costretto a rimanere a Brasilia qualche giorno in più e mi hanno fatto perdere il giro in elicottero su Rio… per fortuna sono riuscito a vedere le cascate di Iguazú, anche se facendo tutto di corsa per arrivare in tempo“.
E di quella nazionale di Fenomeni, che cosa ricorda?
“La cosa particolare di quell’anno è stata che tutto è maturato piano piano. C’erano un bel po’ di punti di domanda, le sconfitte con Cuba e il momento negativo di Zorzi: non siamo certo arrivati ai Mondiali da favoriti, la nostra idea era che andare a medaglia sarebbe stato già un successo. Da fuori non avremmo mai creduto di poter battere il Brasile in casa, e nemmeno quando siamo arrivati in finale ci immaginavamo di sconfiggere Cuba: certo il pensierino c’era, ma l’idea di vedere perdere Despaigne e i cubani… per loro era davvero la partita della vita. Invece è successo e da lì è stato tutto diverso, alle competizioni successive l’Italia aveva la coscienza di essere veramente forte“.
Dal punto di vista personale, come ha vissuto quei Mondiali?
“Io un po’ d’esperienza ce l’avevo, seguivo la pallavolo dal 1982, ma quell’evento è stato particolare. Si era creato un bel gruppo unito e coeso anche con i giornalisti, i vari De Sanctis, Torre, Pasini, Lisi, Eleni, Pea. C’era armonia, si usciva tutti insieme a cena, cose che ormai non si vedono più. E poi c’era anche un bel gruppo di tifosi venuti dall’Italia. Tante persone sono rimaste amiche e altre purtroppo le ho perse, perché gli anni passati sono molti. Ma resta un ricordo scolpito nella memoria, come peraltro lo sono anche le sconfitte: quella di Atlanta 1996 non la dimenticherò facilmente…“.
Per un fotografo, in trent’anni il mondo è cambiato. Com’era il suo lavoro allora?
“Dal punto di vista tecnico, completamente diverso. Innanzitutto non esisteva l’autofocus, si lavorava solo in manuale e la possibilità di sbagliare era altissima. La pallavolo diventava sempre più veloce, e si cominciavano a usare teleobiettivi molto potenti ma anche pesanti e difficili da utilizzare. E poi in Brasile ricordo un buio tremendo, l’illuminazione nei palazzetti era disastrosa, sia a Brasilia sia a Rio de Janeiro. Insomma, la qualità delle foto era pessima: metà delle foto le buttavo via, e non me ne restavano molte, considerato che riuscivo a fare forse 10 rullini a partita, circa 360 scatti. Mi ricordo di essere andato anche a comprare i rullini a Mondiali in corso, per non restare senza“.
Diverse erano anche le condizioni di lavoro e, soprattutto, la tempistica…
“A Brasilia lavoravo da solo, non c’era pubblico né fotografi. A Rio avevo qualche collega in più, soprattutto locali, ma di sicuro avevo molta più libertà di movimento di oggi. Poi le foto bisognava portarle a casa, svilupparle un rullino alla volta, per non rischiare di perderle, e di rullini ne avevo riportati in Italia quasi 80. Le immagini, per capirci, si sono viste una settimana dopo la fine dei Mondiali“.
La sua attività è cambiata anche da altri punti di vista. Cosa vuol dire fare il fotografo di pallavolo oggi?
“Partiamo dal presupposto che la fotografia, in generale, sta colando a picco. Colpa dell’assuefazione alle brutte foto, un po’ per la diffusione del digitale e molto per il fatto che la gente si abitua ai selfie fatti con il cellulare… non fanno delle foto, fanno delle immagini. Nel mondo dello sport, poi, il fotografo è l’unico ruolo nel quale devi entrare in concorrenza, per esempio, con un macellaio che la sera chiude il negozio e viene a fare le foto, togliendo il lavoro a chi lo fa veramente. Di professionisti nel mondo della pallavolo ne sono rimasti 4 o 5, gli altri sono fotoamatori che vengono pagati raramente e poco. Ma io non mi metto mica fuori dal negozio del macellaio a regalare le bistecche!“.
Dal suo punto di vista, cosa si potrebbe fare per migliorare?
“Nei momenti di crisi, a maggior ragione, bisogna puntare sulla qualità. Bisogna pubblicizzare il nostro sport, cercare di spingerlo. Ma come facciamo senza immagini buone? Sono anni che propongo di organizzare degli incontri di formazione con i fotografi per comunicare le nostre esperienze e fornire delle linee guida: altrimenti, quando io e gli altri colleghi che seguono il volley non saremo più in attività, chi ci sostituirà? Senza contare il lato economico: lavorare gratis non conviene a nessuno, te ne accorgi quando devi cambiare la macchina fotografica e arrivano le spese…“. LEGGI TUTTO