TORINO – C’è chi, nel motorsport, ha vinto più mondiali di lui, ma nessuno sarà mai come lui: immortale, forever. Ayrton Senna non solo fuoriclasse, ma mito, icona pop, campione e personaggio. Sono passati 30 anni da quel maledetto 1° maggio 1994, quando, alle ore 14.17, in un GP di San Marino funestato da una serie inquietante di incidenti (che mietette un’altra vittima, l’austriaco Roland Ratzenberger), Senna si schiantò con la sua Williams alla curva del Tamburello a causa del cedimento del piantone dello sterzo, morendo alle 18.40 all’ospedale Maggiore di Bologna per le lesioni. A ripercorre la carriera di Ayrton “Magic” – tre volte iridato e vincitore di 41 GP – è la più completa esposizione mai realizzata in suo onore. Il Mauto, Museo Nazionale dell’Automobile di Torino, dedica, infatti, a Senna una mostra unica – progettata dall’architetto Francesco Librizzi – che approfondisce due aspetti: la storia sportiva e quella privata di un uomo che ha conquistato il cuore di milioni di tifosi. Dai kart fino alle monoposto, “Ayrton Senna Forever” raccoglie le auto più significative guidate da Senna – dalla Formula Ford all’ultima Williams – corredate da documenti, pubblicazioni e memorabilia. Elementi intimi che costruiscono un ritratto a tutto tondo.
Carlo Cavicchi, biografo di Senna e curatore di “Ayrton Senna Forever”, cosa si deve aspettare il visitatore venendo al Mauto?
«Un qualcosa di più rispetto alle mostre fatte finora su Senna: lo sport abbinato alla cultura e all’arte, in un unico luogo tutto il mondo di Ayrton. Tra gli oggetti che lo ricordano cito il Casco Bell, usato nel campionato paulista di kart del 1974, firmato e dedicato al suo meccanico Lucio “Tchè” Pascual, da cui emerge l’umanità di un giovanissimo driver di talento. Si scopre un Ayrton diverso: pilota, ragazzo e uomo. Parti di lui sconosciute, soprattutto ai giovani. Senna ha segnato un’epoca allargata che trascende il periodo in cui correva. Ancora oggi è una pietra di paragone per chi corre. Quando vai forte ti dicono: “sei veloce come Senna».
Qualcosa in “più” lo ha apportato anche Francesco Librizzi?
«È stato geniale nel creare un percorso fuori dagli standard di una mostra. Il concetto è quello di Disneyland: un luogo magico e coinvolgente in cui il visitatore si lascia trasportare dalle sollecitazioni senza seguire un percorso a priori. Librizzi rifugge l’effetto gregge e lascia libera scelta su cosa vedere prima. Ha voluto rispecchiare il carattere di Senna: sintetico, essenziale ma meticoloso. Mai scontato. Niente di truce sulla morte, niente gossip. Ayrton rifuggiva la mondanità. Una sera a Detroit mi disse: «Mi voleva un ricco americano per una serata: compenso 50 milioni di lire. Ma non sono andato. Se dico sì a tutti non sono più un atleta ma un perditempo». Negli anni ’80 erano parole da visionario. Ad Ayrton questa mostra sarebbe piaciuta tantissimo: lo rappresenta appieno».
Senna il più forte di sempre?
«Forse del suo periodo sì, ma non si possono fare paragoni con altre stagioni del motorsport. La morte “spettacolare” ha aggiunto fascino alla sua nomea. Era un vincente a 360°. Trasmetteva comunicazione, sapeva parlare con gli occhi, diceva poco ma in modo chiaro. Scelse il cognome della madre di origini italiane, abbandonando quel De Silva troppo comune in Brasile, e ne fece un brand, un brevetto. Era un imprenditore di successo. Faceva bene