Nato sportivamente in SBK con la Yamaha, evolutosi in MotoGP, manager di Valentino Rossi nei tempi più vincenti, successi condivise col genio di Tavullia, soddisfazioni iridate assieme a Suzuki, esperienza di livello collezionata in Formula1 per Alpine e Renault. Davide Brivio è un manager brianzolo dalle mille e significative interpretazioni, siano questi manageriali o di rappresentanza. Qualsiasi cosa faccia, gli viene bene, tanto da aver meritato un ruolo nel neonato team Trackhouse, realtà americana proveniente dalle NASCAR automobilistica: «Proprio recandomi a Charlotte in North Carolina mi sono accorto della serietà su cui verte il progetto» il racconto di Davide, che sul volo pensava e ripensava all’offerta ricevuta: «Dopo la chiamata, ci ho pensato qualche istante, sino a dirmi: dai, vai! Le chiacchierate spese al telefono erano semplice premessa alla dimensione delle intenzioni di Justin Marks, titolare dalla infinita passione per il motosport».
Che tipo di realtà è Trackhouse?
«Anzitutto, grossa. Mi sono recato negli Stati Uniti con cose da scoprire, l’ho fatto: la struttura vive di corse, le persone sanno cosa significhi partecipare a competizioni e conoscono il sapore della vittoria. Casomai, loro hanno bisogno di maturare esperienza in MotoGP. Quale è il modo migliore per riuscirci? Esserci».
Qatar, primo Gran Premio per Trackhouse, ennesimo per lei. Come è andato?
«Non benissimo, se guardiamo i risultati di Miguel Oliveira e Raul Fernandez. Però, per noi il Gran Premio inaugurale è stato fondamentale, poiché il vero inizio per Trackhouse. Sembrerebbe un principio, lo è, ma è anche un traguardo: Justin si era rivelato interessato a metà del 2023. Era venuto in Austria a esplorare la situazione, perciò pensava di debuttare nel 2025. È arrivata la comunicazione dalla Dorna nello scorso novembre, in merito all’opportunità immediata: siamo entrati subito. Tutto è stato fatto in pochi mesi, tra allestimento staff e lavoro sulle moto».
Aprilia è un bel Marchio sul quale contare.
«Abbiamo ottime RS-GP e supporto del Costruttore. Il merito di Trackhouse è spiegato dal segnale: voglia e intenzioni di fare bene sono altissime. Marks ha discusso il contratto insieme con Aprilia, chiedendo immediatamente le RS-GP versione 2024, più costose rispetto alle 23, ma continuamente aggiornate. Dopo qualche parola, ha accettato. La cosa mi ha colpito positivamente. Arriveremo ad avere le stesse moto del team Factory di Noale, oggi, nel 2025 e 2026. Per noi è enorme appeal verso piloti, sponsor e ambiente».
A proposito di ambiente: la Formula 1 è veramente diversa dalla MotoGP?
«Potremmo dirla così: in Formula 1 corrono aziende, in MotoGP corrono team. Le quattro ruote godono di risorse economiche e umane enormi perché, logicamente, la vettura è più grande di una due ruote. Sulla monoposto operano tantissime persone, e quasi ogni pezzo si produce in casa, a parte gomme, freni e poco altro. Tra power unit in configurazione ibrida e sezioni aerodinamiche, non si smette mai di intervenire. Il gioco richiede risorse grandi, un numero di ingegneri cospicuo, reparti separati ma collegati tra loro. Se quantifichiamo le differenze, sono importanti».
Importante fu il suo colpo: strappare Valentino Rossi alla Honda nel 2003, portandolo in Yamaha.
«Ricordo bene quello storico blitz ma, qualora lo paragonassimo al viaggio affrontato negli USA alla volta di Trackhouse, non vi trovo affinità. Anche perché la MotoGP è cambiata nel tempo, i personaggi che la compongono pure… Valentino fu una sorta di effetto popolare, simile ad Alberto Tomba nello sci e Jannik Sinner nel tennis. Rossi dette l’impennata al sistema, uscendo dall’ambito delle corse, spaziando in vari ambiti. Oggi l’effetto 46 si è smorzato, però l’audience è ancora alto. L’entusiasmo c’è. Eccome».
Lei prova ancora entusiasmo?
«Parecchio, altrimenti me ne resterei a casa. Nella mia carriera ho preso tanti aerei, lo faccio volentieri, di nuovo. La passione per il mio lavoro è intatta, anzi, la definirei ulteriormente cresciuta e consolidata».