Ci pensa eccome. «Smettere di giocare in A1 è stato il mio sliding doors». Silvia Gottardi ci pensa eccome, a quarant’anni e un fisico ancora abile alla fatica, al confronto, una testa in continuo movimento, sovreccitata dalla fantasia del fare. Una mente fertile e immediata, come un’apertura in contropiede, un assist nolook, un tiro in sospensione che è un viaggio di andata e ritorno in un attimo. «Sono malata di pallacanestro», lo dice con tenerezza, come quando si mostra un documento che per quanto datato non riesce a sbiadire.
BASKET CHE PASSIONE – Trentina di nascita, austriaca di madre e un campo di fronte a casa. «Mio padre era un patito e abitavo davanti al palazzetto non potevo non giocare a basket. Mi diverte ancora e faccio fatica a smettere». A vent’anni però non ha fatto fatica a lasciare le montagne e l’aria buona per andare a Priolo, una città costruita intorno alle raffinerie, dove la sera la luce gialla dei fuochi rende il paesaggio surreale. «Mi interessava solo giocare, non cosa ci fosse intorno. E il palazzetto era aperto 24 ore al giorno, praticamente vivevo lì dentro».
Ha vinto titoli, giocato le coppe europee, anche in una squadra inglese, vestito la maglia della Nazionale e fatto quattro tappe del tour con gli Harlem Globtrotter. «Sono cresciuta in una famiglia in cui prima veniva lo studio. L’Inghilterra fu un compromesso: sono andata a Manchester per un master dopo la laurea e ho trovato una squadra. Quando sono tornata in Italia volevo lavorare e ho preferito la A2, per poter conciliare le cose. Oggi non lo rifarei. Ecco il mio sliding doors».
Neanche si è concessa il pensiero, l’idea di farne un lavoro. «E’ impensabile in Italia. Dedichi la vita allo sport e alla fine della carriera non hai niente. In Spagna nel basket sono riconosciute come gli uomini. Siamo anni luce lontani. La battaglia è lunga e val la pena combatterla tutte assieme, senza differenza di sport».
La battaglia è a tutto campo, per pari diritti e contro una cultura dura a morire. «Fatta di stereotipi, come quello che si perde la femminilità o che vengono le gambe grosse».
L’ETA’ DELLA CONSAPEVOLEZZA E DELLA BICICLETTA – Silvia Gottardi è nell’età della consapevolezza, quei quarant’anni che la fanno voltare indietro con un filo sottile di rammarico, per le porte chiuse a un destino e aperte su un altro, lo stesso filo però cuce ogni giorno nuove trame. «Ho compagne tra i 18 e i 23 anni, una bella differenza che in campo non avverto. Voglio sempre vincere e questo spirito non ha età. Alle mie giovani compagne trasmetto passione per lo sport ed esperienza e loro mi danno freschezza ed entusiasmo. Mi piacciono, sono libere da pregiudizi. Avevo detto che a quarant’anni avrei smesso di giocare a basket, ma mi sono fatta male alla caviglia, e sono stata una stagione praticamente lontana dal campo, non posso chiudere la carriera da infortunata. Intanto ho rispolverato la bicicletta, era solo appesa al muro. Prima la usavo per spostarmi a Milano, poi con Linda abbiamo iniziato a viaggiare».
UNA LUNA DI MIELE SPECIALE – Così per “caso” prima ha pedalato sulla Milano-Catania, poi Milano-Londra e adesso oltreoceano: dal Canada al confine col Messico. Il caso non esiste, la passione sì, come l’amore e le sue conseguenze. Linda non è solo la compagna di avventura, ma anche di vita. Si sono sposano domani e questo viaggio assume l’aria di una luna di miele molto speciale. «Sono contenta di poter condividere questo con lei – dice Silvia – sarà un viaggio incredibile, ma se non fosse venuta sarei partita lo stesso».
La traversata sarà impegnativa, se non estrema. Il tutto sarà documentato sul sito di www.ciclistepercaso.com, con blog e foto. «La bici è un mezzo democratico, anarchico, libero. E’ un simbolo di emancipazione femminile, la usavano le Suffragette e le partigiane. Noi vogliamo dire alle donne di essere indipendenti e viaggiare. In Milano-Catania abbiamo ripercorso simbolicamente le strade del Giro d’Italia. In Milano-Londra abbiamo raccontato le grandi donne d’Europa, come Margherita Hack e Coco Chanel. E adesso tra Canada e Messico il viaggio è avventuroso, tra montagne rocciose e natura selvaggia e vi sveleremo le avventuriere del passato. Si parla sempre di uomini e invece vedrete che donne, non c’è solo Colombo!»
L’avventura è faticosa e richiede un bagaglio minimo, che pesa comunque 30 chili. Partenza l’11 con pochi vestiti, la tenda, il pannello solare per ricaricare gli strumenti, 48 giorni fuori, per 4418 km, l’acqua per quando non si incontrano centri abitati. E un po’ di paura addosso, il peso giusto, quanto basta per non sfidare la sorte e gli animali pericolosi. «Saranno strade sterrate, saliremo sopra i duemila metri in Colorado. Non temo qualcosa in particolare. Forse come il corpo reagisce alla fatica. Ci alleniamo da gennaio, cinque volte in palestra più le uscite, ma il vero allenamento sarà strada facendo. Campeggeremo, munite di spry al peperoncino contro orsi bruni e i Greezly, sappiamo di dover tenere lontano il cibo dalla tenda e non fare rumore. Spero di vederne qualcuno ma da lontano». Sarà una fuga, nonostante le connessioni della sosta. «Oggi si cerca di non faticare e di non annoiarsi mai. Qui invece sarà fatica e noia. Dieci ore al giorno pedalando, si perdono le forze e si pensa tanto. Sarà un viaggio lento, spesso silenzioso».
Silvia, instancabile e fantasiosa donna, come le sue parole dette veloci in capriola e senza fiato. Se incontrerà un play ground si fermerà a fare due tiri, perché al basket non dice mai di no. Lei che ha fatto lo show con gli Harlem Globtrotter. Lei che è cresciuta a pane e Jordan. Lei che da settembre rilancerà un magazine online femminile Pinkbasket. Lei che l’avventura ce l’ha nel sangue e poi negli occhi e nel cuore: Birmania, Africa, Mongolia, Patagonia. Lei alla ricerca di qualcosa, perché la ricerca è divenire. «La ricerca non finisce mai, ma sono già felice così nonostante il mio sliding doors».