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Il mito Ayrton Senna

Il ricordo affiora alla memoria come una fotografia di Sebastiao Salgado, luci e ombre che scavano e scolpiscono il volto, fondendosi in un’immagine che non si ferma all’apparenza, ma tratteggia un carattere, racconta una storia. Ricordo di Senna la sua espressione perennemente oscillante tra il corrucciato e il pensoso, le parole che fluiscono con un ritmo studiato, ogni risposta è condita da pause più o meno lunghe, quasi un artificio retorico per conquistare l’ascoltatore. Lo rivedo uscire dal motorhome, dopo il briefing tecnico, come da una sartoria, pantaloni perfettamente stirati, camicia senza una piega con i polsini slacciati e aperta sul collo, gli occhiali da sole. Ayrton Senna da Silva era un brasiliano atipico, riservato, introverso. Non timido, semmai geloso della sfera privata, che teneva nettamente divisa dal lavoro. Un carattere influenzato dalle origini pauliste, antitetico rispetto all’indole guascona del carioca Piquet, ma anche e soprattutto plasmato dagli anni dell’infanzia e dell’adolescenza vissuti in un ambiente di classe elevata (andava a scuola sulla Mercedes di famiglia guidata dall’autista), assorbendo per osmosi un certo stile comportamentale.

Il Giro degli Dei

«Ci sono momenti nella vita in cui bisogna assolutamente rischiare, oggi dovevo fare così. Ho usato la stessa tattica di quando correvo in Formula Ford, partivo come un missile e nel primo giro distruggevo psicologicamente tutti gli avversari». È il giorno di Pasqua del 1993, Senna ha appena vinto il Gran Premio d’Europa a Donington, non una corsa qualsiasi, un’impresa da consegnare agli annali, la sublimazione dell’arte della guida sul bagnato. Una gara che si racchiude tutta in giro, che gli inglesi hanno battezzato “Lap of the Gods” (il giro degli dei), unanimemente eletto il miglior primo giro della storia della Formula 1. Piove quel giorno a Donington, Senna guida una McLaren con motore Ford clienti, lo stesso della Minardi, un otto cilindri che ha decine di cavalli in meno rispetto al Ford ufficiale della Benetton e ancora più penalizzato nei confronti del V10 Renault della Williams. Sulla pista bagnata il divario di potenza ha un valore relativo, l’uomo torna a essere padrone assoluto della macchina e del proprio destino. Basta un giro, uno solo. In meno di quattro chilometri Senna sorpassa nell’ordine la Benetton di Schumacher, la Sauber di Lehto, la Williams di Hill e l’altra Williams di Prost, che poi sprofonderà in una serie di cambi gomme sciagurati. Il resto è una cavalcata solitaria che si conclude con Hill a quasi un minuto e mezzo dal brasiliano e con Prost terzo e doppiato, umiliato e rimbeccato pubblicamente mentre si lamentava dei problemi della sua auto. «Se vuoi, la prossima volta mi prendo io la tua Williams e ti do la mia macchina, così non avrai più problemi». Una frecciata nello stile dei tempi e del carattere dei due grandi duellanti, ciascuno teso ad annientare l’avversario, anche mediaticamente. «Quando perde deve sempre cercare qualche scusa. Davvero, se non è contento, basta che faccia dipingere una Williams con i colori della McLaren, poi vediamo cosa succede. Errori? oggi ne hanno fatto tutti, forse ha vinto chi ha sbagliato meno».

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