I Milwaukee Bucks hanno boicottato gara 5 del primo turno dei playoff Nba versus Orlando Magic, innescando una reazione a catena dalla quale è scaturita la mobilitazione generale dello sport americano contro il razzismo, dopo che Jacob Blake, 29 anni, afroamericano, il 23 agosto scorso è stato colpito alla schiena da sette pallottole sparate da un poliziotto. Ora, Jacob è paralizzato. E, nelle successive manifestazioni a Kenosha, due ragazzi sono stati uccisi.
Caso Blake, caos negli USA: si ferma lo sport
Ciò che è accaduto nella Bolla di Orlando, il 26 agosto alle ore 16, le 22 in Italia, si è già consegnato alla storia. E ha confermato le parole che Nelson Mandela pronunciò il 24 maggio 1995, a Johannesburg, dopo avere consegnato il trofeo a François Pienaar, capitano del Sudafrica vittorioso sugli All Blacks nella finale del mondiale di rugby: «Lo sport ha il potere di cambiare il mondo». Il trionfo degli Springboks suggellò anche in ambito sportivo la fine dell’apartheid. Lo sport ha il potere di scuotere il mondo, come accadde il 16 ottobre 1968, a Città di Messico, sul podio della finale dei 200 metri dei Giochi della XIX Olimpiade, quando Tommie Smith e John Carlos levarono il pugno chiuso guantato di nero. «Non eravamo degli Anticristo, volevamo solo dire al mondo che in America c’era bisogno di diritti civili», raccontò Smith il 7 settembre 2013 a Rieti, aprendo le celebrazioni del Mennea Day, mai immaginando che, cinquantadue anni dopo Città di Messico, il razzismo avrebbe ancora insanguinato gli Stati Uniti.
Clamoroso NBA: i Milwaukee Bucks boicottano gara-5
Ecco perché i Milwaukee Bucks hanno avuto il coraggio di dire basta e di fermare il campionato professionistrico Usa più famoso, più importante e più ricco del mondo. Questo coraggio è stato esemplare. Questo coraggio deve essere ammirato, apprezzato, emulato. Ha detto Zach Zarba, uno degli arbitri Nba che ieri hanno marciato nella Bolla, in segno di solidarietà con gli atleti: «Questo è un piccolo esempio di come uomini e donne di razze diverse, quando si uniscono possono fare molto per portare l’attenzione del mondo sull’uccisione di uomini e donne afroamericani, di uomini e donne afroamericani disarmati. Stiamo dimostrando che non sono solo gli afroamericani a protestare. Spetta a tutti noi». E l’arbitro Marc Davis: «Non è una questione di destra contro sinistra. È una questione di giusto e sbagliato, di tutti contro il razzismo. Non sono un politico, ma ho bisogno di capire perché le vite possano esser tolte. Spero e prego perché si trovino soluzioni». Parole giuste. Seppelliscono le strumentalizzazioni politiche di ogni colore, le insulse accuse mosse dagli webeti ai «superprofessionisti strapagati che tanto ricominceranno subito a giocare» che scorrono nei rivoli di fango delle fogne social. La battaglia contro il razzismo deve impegnare tutti e ognuno deve fare la sua parte. Anche nello sport del nostro Paese, teatro nel calcio di episodi tanto repellenti quanto frettolosamente archiviati a colpi di se, di ma, di ipocrisie e di ignoranza. Enough is enough. Quando è troppo è troppo.
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