“La prima cosa che si nota negli spogliatoi NBA in questi giorni non è la concentrazione di uomini anormalmente grandi in vari stati dello spogliarsi. È il silenzio. I più grandi giocatori di pallacanestro dell’universo si isolano con le cuffiette prima della partita e seppelliscono la testa nei telefoni dopo la partita. Guardano i momenti salienti, ascoltano i sapientoni, seguono i meme e passano una quantità incredibile di tempo nel tentativo di decifrare gli emoji. Hanno capito che quello che succede sui loro telefoni è spesso divertente come quello che succede in campo.”
Per il Wall Street Journal Ben Cohen (qui) ha fatto un reportage sui giocatori NBA dall’eloquente titolo “Anche l’NBA ha problemi con i social media ora” e dal sottotitolo “E se alcune delle cose che hanno reso così popolare il campionato sono le stesse cose che rendono i giocatori infelici?”.
La capacità di appoggiarsi ai social media ha regalato alla Lega quel quid che le ha permesso di diventare la numero uno mediatica e popolare al mondo tra gli sport. Ma la settimana scorsa lo stesso Adam Silver ha dovuto ammettere che c’è l’altra faccia della medaglia. Nella conferenza allo Sloan Sports Analytics del MIT il Commissioner si è lamentato del numero di giocatori che gli dicono “sono veramente infelice.”
Stare presenti in maniera eccessiva sui social alla fine trasmette ansia e di conseguenza infelicità. Gli atleti professionisti hanno da sempre lottato contro sentimenti di ansia e solitudine. Ne abbiamo avuto la conferma specialmente dopo che giocatori di rilevante importanza come Kevin Love e DeMar DeRozan hanno sostenuto una maggiore consapevolezza dell’importanza della salute mentale negli ultimi anni, ma non è un nuovo fenomeno. Jerry West ha rivelato nel suo libro di memorie di aver combattuto la depressione per tutta la sua vita ed è il logo della NBA.