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    Riccardo Sbertoli, carattere da leader: “Sono cresciuto a Milano e qui voglio restare”

    Di Roberto Zucca
    Vederlo così consapevole di se stesso, del suo gioco, della sua maturità professionale, fa dimenticare il fatto che Riccardo Sbertoli ha “solo” 22 anni. Sembra ieri quando Riccardo palleggiava timidamente a Segrate. Da allora la strada lo ha portato a calcare per sei stagioni di fila il palcoscenico di Milano e negli ultimi anni a diventare un punto fermo dell’Allianz di Roberto Piazza:
    “Intanto ringrazio per la definizione di punto fermo. Devo dire che la strada fatta dai tempi di Segrate è stata tanta e che la consapevolezza maturata è ovviamente cresciuta con gli anni. Ma sono stato supportato da questa società e dai giocatori con cui ho disputato le varie stagioni. La Powervolley mi ha dato la possibilità di crescere e di fare un percorso. È una fortuna che non capita a tutti”.
    Non a caso è arrivato il rinnovo contrattuale quest’estate per altre due stagioni.
    “Avevo parlato con la società già qualche mese prima dell’estate. Sono molto legato a Milano e sono cresciuto qui, l’intenzione di vestire questa maglia era un mio desiderio e per altri due anni sarò parte della storia di questo club. Per me è e resterà un onore”.
    Si erano diffuse voci su un interessamento di diversi club. A 22 anni diventare incedibile è un vanto o spaventa?
    “(ride, n.d.r.) Io non ho fatto in tempo a vivere questo interessamento. In realtà ho imparato a non leggere quel tipo di voci di mercato e in generale non sono uno che legge ciò che scrivono sul suo conto. Detto questo credo sia solo un motivo di orgoglio far parte di un club che ti fa sentire desiderato nel tempo”.
    Foto Powervolley Milano
    Milano anche quest’anno è tra le prime della classe.
    “Vorrei avere anche qualche punto in più perso per strada, ma finora è andata comunque bene. Stiamo disputando in parallelo la Challenge Cup, da cui spero di vivere delle soddisfazioni, e spero di giocare la Final Four al massimo della condizione. Ultimamente abbiamo giocato con delle formazioni se vogliamo inedite, quindi l’ideale sarebbe poter disputare questo tipo di competizioni con tutta la rosa a disposizione. È forse l’aspetto più duro di giocare durante la pandemia, anche se molte squadre si trovano nella nostra condizione”.
    Il modello Milano prevede uno Sbertoli che gioca come un leader. Uno stile definito ben riconoscibile in campo.
    “Ho esordito in Superlega ritrovandomi dall’altra parte del campo con giocatori come Bruno e come De Cecco, che ho sempre preso a modello. Se ora riesco ad affermarmi in campo con le mie caratteristiche, senza scimmiottare quelle di altri palleggiatori, significa che il lavoro è stato fatto”.
    Il derby con Monza è andato a favore del Vero Volley. Le posso chiedere se ha ancora valore parlare del derby come di una partita più sentita delle altre?
    “Dipende. Nel mio caso le dico che è una partita che sento e che con gli anni ho imparato a disputare, perché è da quando gioco nelle giovanili che la sfida con Monza è per me quella con una compagine che conosco e che fa parte dei campionati nei quali sono cresciuto pallavolisticamente. Per altri è una gara come le altre. Non c’è quell’aria del calcio, argomentata anche dalle tifoserie nel bene e nel male. C’è anche il fatto che dall’altra parte del campo ci sono persone con le quali sei cresciuto, e penso ad atleti come Galassi, con cui magari capita di ritrovarsi a parlare anche nel dopogara. Ma è sempre una bella sfida”.
    Riccardo, fuori dal campo, sembra il classico ragazzo della porta accanto. Appare timido e distante dallo sportivo che magari ha qualche grillo per la testa.
    “La correggo dicendo che chi mi conosce sa che non sono uno timido, ma riservato. Non sono uno che ama apparire o uno a cui piace condividere il proprio privato. E non lo sono mai stato. L’immagine della porta accanto forse emerge perché sono quello che è cresciuto con lo stesso gruppo di persone a Milano, che ha studiato dove è cresciuto, e questo è stato fondamentale, e non manca mai a una pizza con gli amici di sempre”.
    Eppure la sua vita è cambiata tanto negli ultimi anni. Se le dico Tokyo, in chiusura, cosa è per lei?
    “Un sogno, un obiettivo, un motivo per lavorare con ancora più determinazione. È presto per pensarci, perché mancano molti mesi alle convocazioni e so di avere 22 anni e le mie occasioni da sfruttare più avanti nel tempo. Ma ci spero. La nazionale è quel posto di cui, quando inizi a farne parte, vorresti far parte per sempre”. LEGGI TUTTO

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    Tommaso Rinaldi tra sogni e realtà: “Vorrei Modena per tutta la vita”

    Di Roberto Zucca
    Le voci sul suo conto farebbero perdere la testa ai più. Ma quando ti trovi davanti Tommaso Rinaldi, giovane schiacciatore della Leo Shoes Modena, capisci subito che, oltre ad essere il classico ragazzo della porta accanto senza grilli per la testa, è anche un atleta con molta razionalità e i piedi ampiamente ancorati a terra:
    “È una cosa che mi ha insegnato papà. In questo lavoro avere i piedi per terra senza perdere la testa è una cosa fondamentale per poter affrontare tutti i momenti, dentro e fuori dal campo. Io poi sono proprio agli inizi. Vivo un momento che mi piace definire magico e che spero duri il maggior tempo possibile”.
    Astro nascente. La grande promessa di Modena. Rischia di essere tutto troppo amplificato?
    “Rischia di esserlo se tutto ciò che viviamo non viene, appunto, vissuto senza un minimo di razionalità. Sono arrivato qui con la voglia di fare e ho mosso passo dopo passo per fare sì di poter entrare in questo tempio della pallavolo e far parte di tutto questo. Non mi curo molto di ciò che scrivono, non l’ho mai fatto e non rappresenta un peso. So cosa voglio e questo è l’importante”.
    Foto Modena Volley
    Cosa vuole Tommaso Rinaldi?
    “Modena. La vorrei per tutta la vita. È un’emozione grandissima far parte di questa società. E poi il PalaPanini quando si riempie emana un’energia che non si riesce ad immaginare se non ti trovi in campo e non stai disputando la partita. È indescrivibile”.
    Prima di lei Bruninho, Ngapeth, Christenson mi hanno parlato di quella magia.
    “Capisco che si rimane stregati. Ed è vero. Io Modena l’ho vissuta seduto sugli spalti quando ero più piccolo, seduto in panchina, e ora ho provato cosa significhi stare in campo. Spero che quella magia con tutti i tifosi dentro il PalaPanini sia solo un sogno rimandato di poco tempo”.
    Figlio d’arte. Si è mai sentito tale?
    “Mio padre non mi ha mai fatto sentire ‘il figlio di’. Nel senso che ha saputo starmi al fianco senza chiedermi nulla in più rispetto al fare qualcosa che mi divertisse, mi piacesse. In casa non parliamo solo di pallavolo, anzi, è un confronto molto proficuo su tutto e non mi fanno pesare ciò che mi sta accadendo, o ciò che posso fare in più o in meno nella mia carriera rispetto a ciò che ha fatto mio padre. Per la mia famiglia io sono semplicemente Tommaso, non il giocatore di Modena Volley”.
    Foto CEV
    È vero che si imbarazza ancora quando le chiedono il selfie dopo la partita?
    “(ride, n.d.r.) Come lo sa? Comunque sì, più che l’imbarazzo è l’emozione. Ci sono molte ragazze che giocano a pallavolo, per cui vederci con quella maglia è subito sinonimo di idolatria. E lì mi mostro sempre nel lato più timido. Ci sono anche tanti ragazzi che come me sognano quella maglia e quindi mi fa piacere quando vengono a fare i complimenti dopo la partita”.
    In fondo fanno i complimenti ad un argento europeo Under 20.
    “Che ricordi. Non mi chieda di quella finale però, perché la sconfitta non sono ancora riuscito a digerirla. Ho giocato al massimo delle mie forze ma è stata dura perché molti di noi accusavano già le conseguenze del Covid. Quindi stanchezza, affaticamento. Peccato, vorrei rigiocarla oggi e cambiare la sorte di quel secondo posto”.
    È stata dura riprendersi?
    “Non è un qualcosa che puoi sottovalutare. Oggi sto bene e sono di nuovo in campo, ma non è una semplice influenza che passa con un po’ di paracetamolo. Mi sento fortunato, perché lavoro in un contesto ipercontrollato, ma tanti coetanei che non vengono costantemente monitorati devono abbracciare il valore della prevenzione”.
    Mi dica qualcosa di lei al di fuori del campo.
    “Mi sono diplomato qualche mese fa e quest’anno ho deciso di prendermi un momento per capire se alla pallavolo posso affiancare qualche studio universitario. Vorrei capire esattamente cosa mi piacerebbe fare perché tra allenamenti col club, nazionale, Europei da preparare e il resto avrei fatto una scelta azzardata. Vorrei concedermi la libertà di una scelta ponderata”.
    Quest’anno basta già Modena insomma.
    “Assolutamente. Con qualche traguardo nella testa da raggiungere penso sia più che sufficiente”. LEGGI TUTTO

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    La seconda giovinezza di Enrico Cester: “Per me Vibo vuol dire ripartenza”

    Di Roberto Zucca
    Vederlo battere quella Civitanova che porta con sé il ricordo di sue bellissime quanto altrettanto personali imprese, è stato un momento nel quale tutti si sono resi conto della forza della nuova Tonno Callipo Calabria Vibo Valentia. Una Vibo lucida, a tratti crudele, nella quale anche Enrico Cester si è prestato a fare la sua parte di killer delle grandi di Superlega:
    “Io direi che è una Vibo che si diverte e fa belle cose. Ovviamente il risultato di Civitanova non se lo aspettava nessuno, se aggiungiamo il fatto che davanti ci siamo trovati una squadra veramente agguerrita. Abbiamo fatto il nostro e quando è stato il momento siamo stati capaci di chiudere”.
    Su Instagram ha scritto “Un vecchio Veneto si asciuga i sudori dopo una battaglia. Il finale lo conosciamo tutti”.
    “È stato un bel finale. Ho scoperto i social tardi ma non ne faccio un uso spasmodico, non sono, per dire, il tipo che scrive frasi motivazionali. Anzi, non scrivo spesso perché faccio molta autocritica. Io, della partita contro la Lube, penso non ai muri fatti ma ai primi tempi che non ho messo dentro”.
    Da dove arriva l’idea di vedere il bicchiere mezzo vuoto?
    “Sono così, dentro e fuori dal campo. Non pensi a uno che loda le proprie prestazioni, quanto piuttosto a uno che non è mai contento appieno della propria prova. Si può sempre fare qualcosa di perfetto”.
    C’è qualcosa di perfetto nella sua vita?
    “Valeria, la mia compagna. Lei è la persona a cui non riesco mai a trovare un difetto, nei modi, nei toni, nei comportamenti. Qualunque cosa dica o faccia penso vada sempre più che bene”.
    Sua sorella Erica ha scritto che lei è un uomo di esperienza. È un pensiero che hanno in tanti.
    “Ho 32 anni. Ho un mio vissuto e un mio percorso. Penso anche io di aver fatto qualcosa in questo mondo e riconosco che sia un valore aggiunto. Preferisco però che lo pensino gli altri. Leggere il pensiero di Erica mi fa molto piacere. Se le persone che vengono a vedermi pensano questo è ovvio che il lavoro è stato sicuramente ripagato”.
    Cosa significa Vibo per lei a 32 anni?
    “Il riscatto. Meglio dire, la ripartenza. Arrivo da un’esperienza a Verona in cui volevo trovare più spazio, dopo aver lasciato l’anno prima Civitanova, che è stata la mia casa per quattro stagioni. Volevo rincominciare in un altro posto, con altre basi. Sono felice dell’ambiente che si è creato a Vibo”.
    Si dice che Baldovin sia bravo a creare gli ambienti giusti.
    “È un buon allenatore che si sta ad ascoltare volentieri. Ci siamo trovati tutti con la voglia di fare bene. E lo stiamo dimostrando. Credo che il lavoro di squadra che stiamo facendo sia decisamente buono, se in campo sono arrivati certi risultati”.
    Tonno Callipo Calabria Vibo Valentia
    Trentadue anni. La metà dei suoi anni l’ha passata in serie A. Ci ha pensato?
    “Ho fatto molti pensieri, ogni tanto ho meditato anche di concentrarmi su altro che non fosse la pallavolo, o semplicemente di cambiare vita e stare più vicino a Valeria. Abbiamo delle attività in cui abbiamo entrambi investito tempo e sogni. Mi è capitato di pensare di portarle avanti assieme anche recentemente”.
    Non vorrà dirmi che è già arrivato il momento di appendere le ginocchiere al chiodo.
    “(ride, n.d.r.) Ancora no, dai. Abbiamo una farmacia in cui ho investito dei risparmi vicino a Gallipoli. Mi piacerebbe dare una mano a Valeria, pensare di mettere su famiglia. Progetti di stabilità, ecco tutto”.
    La ripartenza di cui mi ha parlato prima pensa comprenda anche la nazionale?
    “No, penso quello sia un treno ormai passato. Nel ruolo forse saranno fatte scelte che ricadranno su atleti più giovani. Mi fa piacere averne fatto parte e se mi chiedessero di farne parte in futuro accetterei con piacere. Ma credo ci siano dei piani diversi e la concorrenza nel ruolo è tanta”. LEGGI TUTTO

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    “Bisogna saper perdere”: Giorgio Barbareschi, da pallavolista a scrittore

    Di Roberto Zucca
    Vittoria e sconfitta sono concetti che durante la carriera da pallavolista, e per un breve periodo anche di direttore sportivo, hanno costituito gran parte della sua quotidianità. Con questi due fenomeni Giorgio Barbareschi, ex giocatore di Montichiari, Cagliari, Latina, Perugia ed ex DS della Conad Reggio Emilia, ha convissuto, lottato, fatto pace. E sui quali ha scritto un libro, che in poche settimane è diventato un piccolo caso editoriale.
    “Il libro si chiama Bisogna saper perdere (uscito ad agosto 2020 per l’editore Ultra, n.d.r.) ed è una raccolta delle dieci sconfitte più incredibili e devastanti nella storia dello sport. Ho spaziato dal basket, al tennis e alla stessa pallavolo, solo per citarne alcuni. Ho sempre praticato e seguito lo sport a 360°, avevo il sogno di scrivere un libro sin da giovane e una volta conclusa la carriera ho deciso di mettermi all’opera”.
    Flavio Tranquillo, da anni la voce del basket per Sky Sport, ne ha curato la prefazione. Lei lo portò anche a Reggio Emilia, per un incontro con gli atleti durante la sua stagione da direttore sportivo.
    “Penso che Flavio sia uno dei più grandi giornalisti sportivi che esistano in Italia. È stato un onore poterlo conoscere e costruire un rapporto di amicizia. Le contaminazioni tra sport funzionano sempre e quel giorno lo invitai per parlare con i ragazzi del valore del successo. Fu un bell’incontro, che credo sia rimasto nella mente di tutti i partecipanti dell’epoca”.
    Il capitolo sulla pallavolo è dedicato alla Generazione dei Fenomeni e alla sconfitta di Atlanta ’96.
    “Ho raccontato la cronistoria di un gruppo che ha vinto tutto e molto di più. Quest’anno, in occasione del trentennio dai mondiali 1990, ho letto molte celebrazioni, ma in ogni racconto c’è sempre quella seccante postilla della finale con l’Olanda. Ciò che ho voluto ribadire e ho cercato di far capire al lettore è che una sconfitta, per quanto dolorosa come in quell’Olimpiade, non può cancellare i trionfi e il fantastico percorso che quella squadra ha fatto sotto la guida di Velasco e Bebeto. Era un team ineguagliabile, composto da atleti contro cui ho avuto l’onore di giocare e che furono in grado di creare un’incredibile interesse attorno al nostro sport”.
    Ne parlò mai con qualcuno di loro?
    “Conosco molto bene Luca Cantagalli, con il quale ho lavorato a Reggio Emilia, ma per rispetto non ho mai cercato di approcciare l’argomento Atlanta. Quei momenti, se non sono vissuti in prima persona, non si possono comprendere per davvero. Ma mi è capitato di assistere a interviste di Julio Velasco o di Bernardi, in cui hanno fatto capire il fastidio che provano ogni volta che sono costretti ad affrontare quell’argomento”.
    Giani ha dichiarato che non ha vissuto a lungo con lo spauracchio dell’ultimo punto perso.
    “E ha fatto bene, perché quel punto non potrà mai intaccare una carriera straordinaria come la sua”.
    Travica invece mi ha confessato che da una semifinale scudetto persa si è ripreso dopo molti mesi.
    “Capisco il suo pensiero. Anche io ho vissuto molto male alcune sconfitte, ma bisogna riuscire a metabolizzarle e andare avanti. Però apprezzavo di più quelli che si chiudevano in un cupo silenzio piuttosto che quelli, e mi creda ne ho visti parecchi anche in serie A, che entrati nello spogliatoio dopo una partita persa chiedevano dove si andasse a cena o in discoteca. Una sconfitta non può e non deve condurre alla depressione, ma nemmeno essere dimenticata dopo un paio di minuti, altrimenti significa che a quella gara non ci tenevi poi molto”.
    La sua reazione più plateale?
    “Ai tempi della A1 dovetti rinunciare a partecipare al matrimonio di mia sorella a causa di una partita, che finimmo per perdere malamente. Rientrando nello spogliatoio un compagno di squadra fece una battuta scherzosa: mi avventai su di lui e lo presi per il colletto della maglia, con i compagni che dovettero separarci a forza. Era un amico, uno di quelli a cui ero più legato in squadra. L’episodio finì lì e cinque minuti dopo mi scusai con lui. Il mio gesto era ingiustificato, ma in quel momento non riuscivo ad accettare quel tipo di atteggiamento”.
    Ci sono giocatori ma anche allenatori che proprio non digeriscono la sconfitta. Ne ha avuti?
    “(ride, n.d.r) Nei primi anni l’allenatore di una squadra di serie A si buttò a terra in spogliatoio perché era furibondo con noi per un 3 a 0 subito in casa. Era molto teatrale negli atteggiamenti e aveva un carattere molto forte. Tanto che un giorno un compagno gli fece un verso modello Cassano, quando imitava gli allenatori dietro le spalle. Appena il coach lo vide scoppiò un putiferio e dovemmo interrompere l’allenamento per dividerli”.
    Le vittorie, invece, quanto sono difficili da vivere?
    “Molto, a volte anche più delle sconfitte. Perché alla gioia per il traguardo raggiunto segue l’ansia da prestazione di poter fare meglio. Di dover fare meglio. Penso alla generazione di Velasco, per cui dopo ogni trionfo tutti si aspettavano che sarebbero stati in grado di fare ancora di più. Non è solo il pubblico, la società o la federazione che ti chiedono di alzare l’asticella, ma è la tua professione che ti spinge a guardare sempre più in alto”.
    La tennista Schiavone ha scritto recentemente che, dopo il successo al Roland Garros, non è più riuscita a pensare alla vittoria in maniera concreta.
    “Perché non è facile restare con i piedi per terra dopo un successo del genere. È importante non perdere la bussola, non farsi svuotare dall’appagamento. Se una mattina ti svegli e ti accorgi che il punto più alto della tua carriera è ormai alle spalle e non riesci più a spingere al 100%, significa che è l’inizio della fine. Perdere fa male, deve fare male, altrimenti non è sport. Se la sconfitta non ti pesa più come una volta, forse è arrivata l’ora di pensare ad altro”. LEGGI TUTTO

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    Matteo Sperandio rilancia Porto Viro: “Vogliamo finire ciò che avevamo iniziato”

    Di Roberto Zucca
    Tra i cavalieri che fecero l’impresa con la Biscottificio Marini Delta Porto Viro, quella cioè di dominare gran parte della scorsa stagione della neonata Serie A3, lui rappresenta un po’ il Lancillotto della situazione. Matteo Sperandio, da centrale poliedrico e non solo, è alla sua seconda stagione nel club veneto, dove confessa di trovarsi come in famiglia:
    “È una bellissima realtà, fatta di molte persone che amano questo sport e che per una realtà piccola come la nostra danno l’anima. In un mondo come quello di questa pandemia ho visto molte squadre correre ai ripari per la riduzione degli ingaggi o per salvare il salvabile della stagione precedente. A Porto Viro hanno cercato in primis di tutelare e salvare noi. Questo è stato un bel messaggio, per cui ho scelto di proseguire in questa squadra”.
    Fino al rinvio della partita contro Bolzano eravate gli unici a riuscire a giocare con continuità…
    “Eh, purtroppo so di tante squadre ferme a causa dei contagi e mi spiace dover affrontare un campionato in queste condizioni. Noi siamo stati gli unici fin qua ad aver disputato tutti gli incontri previsti, e questo ci ha permesso di iniziare con una bella scia di cinque vittorie che ha galvanizzato la squadra. Penso ad alcune squadre che, ahimè, hanno esordito soltanto la scorsa settimana”.
    L’obiettivo di Porto Viro è ripetersi?
    “Sì. Abbiamo concluso la scorsa annata non per nostro volere, ma per la triste vicenda Covid. Sino a quel momento avevamo disputato un’ottima stagione e quest’anno vogliamo, diciamo, finire ciò che è stato intrapreso”.
    Insomma, obiettivo A2?
    “(ride, n.d.r.) L’obiettivo è portare questa società, questi tifosi che ci seguono anche a distanza con tanto affetto, dove meritano. Mettiamola così. Se dovesse esserci una promozione, è ovvio, saremmo tutti quanti felici di far parte di qualcosa di più della serie A3”.
    È vero che segui anche il marketing della società?
    “Mi occupo di comunicazione e marketing per lavoro, perché fortunatamente il campionato mi permette di avere degli incarichi professionali. Mi piace dire che sono un consulente che supporto la squadra. Sono una persona con le sue idee precise nell’ambito della comunicazione e del marketing. Mi fa piacere se in questo riesco a dare una mano”.
    La mano gliel’hanno chiesta anche quelli dell’AIP?
    “Compatibilmente con i miei impegni. Vorrei fare di più ma il lavoro e la pallavolo non me lo consentono. Di mio c’è stato un grande impegno nella costituzione di questa associazione e nel credere che un organismo così potesse avere una grande importanza nel nostro mondo, una sua valenza e un valore aggiunto”.
    I risultati si iniziano a vedere? Penso ai casi Lanza e Baranowicz.
    “C’è sicuramente più unione di intenti. Si capisce che stiamo andando tutti dalla stessa parte, e non tanto per porci come antagonisti, ma come dei partner che si affiancano al mondo della pallavolo per fare sì che siano introdotte normali tutele per i lavoratori. Perché anche noi, mi piace ricordare sempre, lo siamo”.
    Dicono che a Porto Viro sono in tanti ad essersi tesserati.
    “Siamo in tanti. Quasi il 100%. Per me è un risultato straordinario. In fondo siamo una squadra, siamo professionisti appartenenti allo stesso settore. La partecipazione e la condivisione sono importanti nel mondo del lavoro”. LEGGI TUTTO