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    La strada per l’Oro: in un podcast il percorso azzurro verso i Mondiali 1990

    Foto Federazione Italiana Pallavolo

    Di Redazione
    Il trentesimo anniversario della storica vittoria azzurra ai Mondiali 1990 è stato ormai celebrato in ogni modo possibile… o forse no: per completare il quadro mancava ancora il punto di vista di chi ha preparato il terreno per quel successo, indirizzando la nazionale lungo il percorso che ha portato dalla favola del “Gabbiano d’Argento” del 1978 fino alla Generazione di Fenomeni.
    A colmare la lacuna ci pensa “La strada per l’Oro“, podcast realizzato dalla Federazione Italiana Pallavolo che da domani, una volta alla settimana metterà a disposizione le testimonianze dei protagonisti del processo di selezione e formazione della nazionale maschile che a Rio de Janeiro conquistò la prima medaglia d’oro della storia della pallavolo italiana. Allenatori, dirigenti, membri dello staff racconteranno così i sogni, i sacrifici, i momenti che aprirono la strada a quel successo.
    La prima puntata, venerdì 4 dicembre, sarà dedicata a Carmelo Pittera, che racconterà il prologo del Gabbiano d’Argento e le sofferte scelte di cambiamento adottate all’indomani di quel secondo posto mondiale. Il promo del podcast è disponibile online.
    (fonte: Comunicato stampa) LEGGI TUTTO

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    Fabio Innocenti, azzurro del Gabbiano d’Argento: “Ricordiamo Fabrizio Nassi”

    Di Redazione
    Un appello per ricordare Fabrizio Nassi, il campione di Pontedera scomparso a novembre 2019. Lo lancia Fabio Innocenti, suo compagno di squadra nella storica squadra locale, la Us Zoli, e poi nella nazionale del “Gabbiano d’Argento” che raggiunse la finale dei Mondiali casalinghi nel 1978. Via Facebook, come riportato da Il Tirreno, Innocenti coglie l’occasione dell’intitolazione di una piazza a un altro grande sportivo locale, il pugile Sandro Mazzinghi, per chiedere un analogo riconoscimento dedicato a Nassi.
    “La mia non è una protesta per togliere qualcosa a qualcuno – precisa Innocenti – anzi: Mazzinghi è stato un grande campione, proprio come Fabrizio che, purtroppo, sembra essere stato dimenticato. Fabrizio è stato vicecampione del mondo, ha partecipato alle Olimpiadi, è stato capitano della nazionale di volley e ha vinto campionati italiani. Era pontederese doc e ha fatto conoscere la nostra città in Italia e nel mondo: mi auguro che questa amministrazione possa rimediare a questa dimenticanza“. LEGGI TUTTO

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    Scatti da Fenomeno: i ricordi mondiali di Fiorenzo Galbiati

    Di Eugenio Peralta
    Nei giorni delle celebrazioni per il trentesimo anniversario dell’impresa azzurra a Rio, il primo oro mondiale della Generazione di Fenomeni, abbiamo avuto l’occasione di riascoltare tutti i protagonisti di quella leggendaria spedizione: giocatori, allenatori, membri dello staff, giornalisti, tifosi e appassionati. Tutti meno uno, l’unico capace di immortalare l’avventura del 1990 in una serie di immagini rimaste nella storia: Fiorenzo Galbiati, il solo fotografo italiano (e uno dei pochi in assoluto) a seguire dall’inizio lo storico Mondiale brasiliano.
    Galbiati è una vera e propria istituzione nel mondo del volley: tutti lo hanno visto almeno una volta su un campo di pallavolo, tutti riconoscono la sua inconfondibile zazzera bianca e, soprattutto, tutti hanno ammirato i suoi scatti sui principali quotidiani italiani, ma non solo. Anche perché, negli ultimi 40 anni, è stato presente praticamente a ogni possibile evento: scudetti, coppe, Mondiali, Europei e ben 8 Olimpiadi consecutive, a partire da Barcellona 1992.
    Abbiamo intervistato il fotografo milanese per ricostruire con lui una tappa indimenticabile del percorso del nostro sport, partendo da una domanda inevitabile: cosa ricorda di quel Mondiale?
    “Poco. Dopo tanti anni i ricordi sbiadiscono, e ascoltando i giocatori ho potuto constatare che non è solo un problema mio… Però quello che mi viene subito in mente, più della finale, è la semifinale contro il Brasile. Il Maracanazinho strapieno di gente, musica, tifosi, un rumore assurdo: non eravamo abituati a palazzetti così, anzi non ne avevamo mai visti. Un’atmosfera affascinante, ma anche fastidiosa a livello lavorativo, perché non riuscivo quasi a muovermi. E poi la contentezza finale: un’emozione che ho vissuto in modo particolare, perché io sono uno che si tiene le cose dentro e poi non ho avuto tempo per vivere le feste successive“.
    Foto Fiorenzo Galbiati
    Quello che sicuramente Galbiati non dimentica sono le spese (diversi milioni dell’epoca) affrontate personalmente per organizzare quel viaggio:
    “Ho deciso di fare questo investimento, che poi ho anche recuperato grazie alla vittoria, ma c’è voluto parecchio tempo. Diciamo che da una parte c’era entusiasmo per la vittoria agli Europei del 1989, dall’altra però gli ultimi Mondiali erano andati malissimo e non c’era garanzia di fare bene. Mi sono detto che non mi sarebbe più ricapitato, e nella peggiore delle ipotesi mi sarei fatto una vacanza in Brasile. In realtà poi gli azzurri, perdendo con Cuba nel girone eliminatorio, mi hanno costretto a rimanere a Brasilia qualche giorno in più e mi hanno fatto perdere il giro in elicottero su Rio… per fortuna sono riuscito a vedere le cascate di Iguazú, anche se facendo tutto di corsa per arrivare in tempo“.
    E di quella nazionale di Fenomeni, che cosa ricorda?
    “La cosa particolare di quell’anno è stata che tutto è maturato piano piano. C’erano un bel po’ di punti di domanda, le sconfitte con Cuba e il momento negativo di Zorzi: non siamo certo arrivati ai Mondiali da favoriti, la nostra idea era che andare a medaglia sarebbe stato già un successo. Da fuori non avremmo mai creduto di poter battere il Brasile in casa, e nemmeno quando siamo arrivati in finale ci immaginavamo di sconfiggere Cuba: certo il pensierino c’era, ma l’idea di vedere perdere Despaigne e i cubani… per loro era davvero la partita della vita. Invece è successo e da lì è stato tutto diverso, alle competizioni successive l’Italia aveva la coscienza di essere veramente forte“.
    Dal punto di vista personale, come ha vissuto quei Mondiali?
    “Io un po’ d’esperienza ce l’avevo, seguivo la pallavolo dal 1982, ma quell’evento è stato particolare. Si era creato un bel gruppo unito e coeso anche con i giornalisti, i vari De Sanctis, Torre, Pasini, Lisi, Eleni, Pea. C’era armonia, si usciva tutti insieme a cena, cose che ormai non si vedono più. E poi c’era anche un bel gruppo di tifosi venuti dall’Italia. Tante persone sono rimaste amiche e altre purtroppo le ho perse, perché gli anni passati sono molti. Ma resta un ricordo scolpito nella memoria, come peraltro lo sono anche le sconfitte: quella di Atlanta 1996 non la dimenticherò facilmente…“.
    Per un fotografo, in trent’anni il mondo è cambiato. Com’era il suo lavoro allora?
    “Dal punto di vista tecnico, completamente diverso. Innanzitutto non esisteva l’autofocus, si lavorava solo in manuale e la possibilità di sbagliare era altissima. La pallavolo diventava sempre più veloce, e si cominciavano a usare teleobiettivi molto potenti ma anche pesanti e difficili da utilizzare. E poi in Brasile ricordo un buio tremendo, l’illuminazione nei palazzetti era disastrosa, sia a Brasilia sia a Rio de Janeiro. Insomma, la qualità delle foto era pessima: metà delle foto le buttavo via, e non me ne restavano molte, considerato che riuscivo a fare forse 10 rullini a partita, circa 360 scatti. Mi ricordo di essere andato anche a comprare i rullini a Mondiali in corso, per non restare senza“.
    Diverse erano anche le condizioni di lavoro e, soprattutto, la tempistica…
    “A Brasilia lavoravo da solo, non c’era pubblico né fotografi. A Rio avevo qualche collega in più, soprattutto locali, ma di sicuro avevo molta più libertà di movimento di oggi. Poi le foto bisognava portarle a casa, svilupparle un rullino alla volta, per non rischiare di perderle, e di rullini ne avevo riportati in Italia quasi 80. Le immagini, per capirci, si sono viste una settimana dopo la fine dei Mondiali“.
    La sua attività è cambiata anche da altri punti di vista. Cosa vuol dire fare il fotografo di pallavolo oggi?
    “Partiamo dal presupposto che la fotografia, in generale, sta colando a picco. Colpa dell’assuefazione alle brutte foto, un po’ per la diffusione del digitale e molto per il fatto che la gente si abitua ai selfie fatti con il cellulare… non fanno delle foto, fanno delle immagini. Nel mondo dello sport, poi, il fotografo è l’unico ruolo nel quale devi entrare in concorrenza, per esempio, con un macellaio che la sera chiude il negozio e viene a fare le foto, togliendo il lavoro a chi lo fa veramente. Di professionisti nel mondo della pallavolo ne sono rimasti 4 o 5, gli altri sono fotoamatori che vengono pagati raramente e poco. Ma io non mi metto mica fuori dal negozio del macellaio a regalare le bistecche!“.
    Dal suo punto di vista, cosa si potrebbe fare per migliorare?
    “Nei momenti di crisi, a maggior ragione, bisogna puntare sulla qualità. Bisogna pubblicizzare il nostro sport, cercare di spingerlo. Ma come facciamo senza immagini buone? Sono anni che propongo di organizzare degli incontri di formazione con i fotografi per comunicare le nostre esperienze e fornire delle linee guida: altrimenti, quando io e gli altri colleghi che seguono il volley non saremo più in attività, chi ci sostituirà? Senza contare il lato economico: lavorare gratis non conviene a nessuno, te ne accorgi quando devi cambiare la macchina fotografica e arrivano le spese…“. LEGGI TUTTO

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    Mondiali 1990: stasera su RaiSport la finalissima Italia-Cuba

    Foto Federazione Italiana Pallavolo

    Di Redazione
    Anche RaiSport +HD dedica uno spazio speciale alle celebrazioni per il trentennale dei Mondiali 1990, ricordando il primo storico oro iridato che diede inizio alla leggenda della Generazione di Fenomeni. Questa sera il canale tematico della Rai trasmetterà infatti lo Speciale Mondiale 1990 curato da Maurizio Colantoni, con interviste al CT Julio Velasco e al capitano azzurro Andrea Lucchetta; a seguire verrà trasmessa integralmente l’indimenticabile finalissima Italia-Cuba.
    Da verificare l’orario d’inizio: la trasmissione era prevista al termine della diretta della gara di Serie A1 femminile tra Bartoccini Fortinfissi Perugia e Unet E-Work Busto Arsizio, che in seguito è stata però rinviata.
    Alle 20.55 la pagina Facebook della Federazione Italiana Pallavolo darà invece il via a una lunga diretta streaming che prevede gli interventi di tanti protagonisti dell’avventura azzurra a Rio.
    (fonte: Facebook Federazione Italiana Pallavolo) LEGGI TUTTO

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    La Generazione dei Fenomeni si racconta: “Non ci risparmiavamo dinnanzi a nulla”

    Di Dania Tuccillo
    Oggi, di trent’anni fa, l’Italia conquistò il suo primo Mondiale al Maracanazinho di Rio de Janeiro. Quell’Italia, passata alla storia come “Generazione dei fenomeni”, ancora influenza il mondo della pallavolo.
    Molti di loro, come Bernardi o De Giorgi, sono oggi allenatori blasonati. Altri, come Lucchetta o Zorzi, commentatori e giornalisti sportivi.
    Ad accomunarli, ancora dopo tutti questi anni, le emozioni che salire sul tetto del mondo farebbe provare a chiunque.
    Il post di Lucchetta è una lunga dedica a tutti i suoi “Splendidi compagni di Gioco.”
    “Grazie a Voi se #ilcapitanolucky12 il primo Capitano portato da Carmelo Pittera alle Olimpiadi di Seoul nell’88  da ingessato per traghettare verso sponde dorate dell’89 e 90 un gruppo di giovani minatori che avrebbero appreso la tecnica dell’autoesigenza estrema e del voler cambiare la storia con le proprie mani è riuscito a prendere il premio come miglior giocatore in un era nella quale i centrali ricevevano e muravano, coprivano e difendevano, battevano ed alzavano ma soprattutto erano Leader incontrastati ,se di personalità e caratura tecnica delle strategie di muro dalle quali nascono se ben ordite ed ordinate, preziose occasioni punto da rigiocare per conquistarselo.Grazie a Zorro -Mascia- Gallo-Feffo-Paolillo-Gardo-Lollo-Nasty-Martino-Bracco-Giangio-Max-David-Libbe-Alberto-Cabro-Giardino-Julio-Angiolino.Grazie ad Ettore Lucchetta e Mamma Maria“
    Fa eco la didascalia di Lorenzo Bernardi, ora allenatore della Gas Sales Piacenza: “Questo gruppo, prima di essere definito un gruppo di fenomeni, è stato certamente un insieme di PERSONE FENOMENALI. Il motivo? Per vincere non si risparmiava dinnanzi a nulla.Orgoglioso di tutti noi”.
    (Fonte: Instagram) LEGGI TUTTO

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    Il Mondiale di Rio 1990 celebrato sui social, in radio e in libreria

    Di Redazione
    Mancano pochi giorni al 28 ottobre, una delle date maggiormente significative per la pallavolo italiana, che quest’anno assume un valore ancora più speciale. Mercoledì scoccheranno trent’anni esatti dal primo Oro Mondiale, conquistato da Velasco e dai sui ragazzi a Rio de Janeiro.       
    Il 28 ottobre 1990, nel leggendario Maracanazinho, Lucchetta e compagni sconfissero 3-1 Cuba, salendo per la prima volta sul tetto del Mondo. Quel successo, dopo il primo titolo Europeo 1989, diede inizio a una serie incredibili di trionfi ottenuti dalla “Generazione di Fenomeni”.         
    Per rendere omaggio a tutti i protagonisti dell’Oro di Rio, mercoledì ottobre alle ore 21 sulla pagina facebook QUI e sul canale youtube della Federazione Italiana Pallavolo QUI andrà in onda una lunga diretta streaming, nel corso della quale interverranno tantissimi protagonisti (azzurri, membri dello staff, giornalisti e grandi avversari) che hanno vissuto dal vivo la rassegna iridata brasiliana.     
    Sempre mercoledì alle ore 10.05, sul canale digitale sportivo Radio1Sport, andrà in onda lo speciale “I MONDIALI DEL ’90: INIZIA L’ETA’ DELL’ORO” dedicato alle gesta degli azzurri. 
    Nel corso della trasmissione radiofonica, condotta da Manuela Collazzo insieme ad Andrea Lucchetta, verranno trasmesse molte testimonianze di chi ha reso possibile l’impresa di Rio 1990 e anche i contributi di alcuni personaggi famosi che hanno vissuto da fuori l’indimenticabile cavalcata della nazionale italiana.          
    Per “indagare” sul successo degli azzurri, in questi giorni, Andrea Zorzi sta conducendo sul suo canale youtube QUI Processo alla Vittoria: una serie di  interviste/interrogatori realizzate da Zorro con quella “Generazione di Fenomeni”  che nel 1990 a Rio de Janeiro salì sul tetto del Mondo.       
    Il trionfo iridato degli azzurri è celebrato anche nelle librerie e nelle edicole attraverso “Il tesoro di Rio”, scritto da Leandro De Sanctis, firma storica della pallavolo e del Corriere dello Sport, all’epoca inviato in Brasile. Nelle pagine del volume vengono raccontate le gesta e sviscerati i segreti di quella squadra leggendaria, capace di sorprendere tutti e di sbaragliare il campo contro avversari ben più quotati.
    (Fonte: comunicato stampa) LEGGI TUTTO

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    La fiducia di Blengini: “Si sono create le condizioni per ripartire ancora meglio”

    Foto Federazione Italiana Pallavolo

    Di Redazione
    È stata un’estate senza nazionali, la prima nella lunga storia della pallavolo italiana. Ma il CT azzurro Gianlorenzo Blengini non si è perso d’animo e non ha smesso di lavorare, come spiega in un’intervista concessa a Diego De Ponti per Tuttosport: “Ci siamo adattati alle circostanze, evitando collegiali che avrebbero comportato tanti rischi, complessità e responsabilità importanti. Abbiamo lavorato a distanza con tutti i ragazzi di interesse nazionale, accompagnandoli fino alla presa in carico dei rispettivi club. Abbiamo poi seguito Zaytsev e Nelli fino a quando si sono uniti alle loro nuove squadre in Russia. Ora dobbiamo far ripartire il lavoro di contatti e confronto con le società e i procuratori“.
    Blengini è convinto che la condizione di emergenza in cui sono ripresi gli allenamenti possa addirittura costituire un vantaggio in chiave nazionale: “In questa situazione negativa si sono create le condizioni per ripartire dopo un lavoro di preparazione progressiva come da molto tempo non era più possibile. Sarebbe stato diverso se ci fosse stata fretta di ricominciare, come è avvenuto nel calcio. Il nostro movimento ha avuto la possibilità di pianificare una progressività ideale. Questo ci tutelerà rispetto agli infortuni e darà agli atleti la possibilità di raggiungere la condizione ottimale. Per la prima volta giocatori come Juantorena, Zaytsev, Giannelli e Colaci potranno arrivare all’appuntamento decisivo della stagione forti di questa preparazione“.
    Lo sguardo resta ovviamente rivolto alle Olimpiadi di Tokyo, che però sono sempre a rischio per la pandemia di coronavirus: si teme che possano essere annullate o anche disputate senza pubblico. Blengini è categorico: “Non ci voglio neanche pensare. L’Olimpiade è un momento di sport, di gioco, di festa che senza la sua cornice sarebbe snaturato. Ci sarà un summit a novembre per definire il prima possibile come fare e sono fiducioso“. LEGGI TUTTO

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    Emanuele Birarelli, una carriera da “rompiscatole”: “Spero di essere stato un esempio”

    Di Paolo Cozzi
    Per il grande pubblico è stato per molti anni il capitano della nazionale, per i tifosi di Trento uno dei gladiatori che hanno a lungo dominato in Italia, Europa e nel mondo, per i più appassionati è l’atleta che con una serie di battute float incredibili ha regalato all’Italia la qualificazione a Pechino 2008 in un match ormai perso contro il Giappone. Ma per tutti Emanuele Birarelli è semplicemente il Bira, centrale moderno, anticipatissimo in attacco e con un “fiuto” infallibile a muro.
    All’alba dei 39 anni, dopo due stagioni a Verona in cui è riuscito ancora una volta a regalare giocate importanti, ha deciso di appendere le scarpe al chiodo e allontanarsi da quel taraflex dove ha versato tanto sudore per arrivare al vertice del volley mondiale. Ma per fortuna ha deciso di rimanere nel nostro Mondo, entrando nella scuderia del noto procuratore sportivo Luca Novi, non più come atleta, ma come agente. Con lui abbiamo fatto una bella chiacchierata, ricca di spunti interessanti, partendo da ciò che ha rappresentato Emanuele Birarelli nel mondo del volley.
    È stato capitano sia in Nazionale che in club, un grande onore immagino! Cosa vuol dire veramente ottenere questo riconoscimento?
    “Innanzitutto, tra tante cose che mi sono capitate in carriera, essere capitano è quella che mi ha reso più orgoglioso. Al di là dei trofei, delle vittorie, delle coppe sollevate, essere riconosciuto come una persona che poteva rappresentare un gruppo di giocatori molto forti è stato qualcosa di molto grande. Soprattutto per me, che mi sono sempre sempre sentito uno che veniva dal basso: complice anche un infortunio, sono arrivato tardi nel volley di serie A e ho dovuto sudare per arrivare al vertice.
    Sicuramente ‘orgoglio’ è la parola più calzante, dopodiché mi viene in mente anche il termine ‘responsabilità’, che l’essere capitano si porta dietro. In tutta la mia carriera ho sempre provato a trascinare i compagni con l’esempio, ma non sempre è sufficiente, perché ogni tanto servono anche le parole! Ho giocato con tanti atleti, diversi fra loro sia caratterialmente che come modo di intendere la vita: mi auguro che abbiano visto in me un modello positivo, che abbiano portato a casa qualcosa di quello che cercavo di trasmettere loro“.
    Di solito il capitano può essere scelto dalla società perché ben rappresenta i suoi valori,oppure dall’allenatore che ne individua le potenzialità come leader. Altre volte è la squadra stessa che “elegge” un giocatore a guida morale dello spogliatoio. La sensazione è che lei racchiudesse un po’ tutti questi aspetti in un’unica figura.
    “Non avevo mai riflettuto su questi tre aspetti, ma mi ci ritrovo molto! Sicuramente in nazionale, come è ovvio che sia, un pochino l’anzianità conta, a maggior ragione rispetto a un club, dove si guarda magari più alla storia di un giocatore all’interno della società, e rispetto alla scelta di un allenatore che ad inizio anno deve scegliere una guida per il gruppo.
    In nazionale sono entrato nel 2008 e sono passate 5-6 stagioni prima di arrivare ad avere l’esperienza per fare il capitano. È stata un’enorme soddisfazione, ma anche una grande responsabilità. Se penso alla squadra di Rio 2016, quella che forse è entrata di più nell’immaginario collettivo, era una formazione zeppa di campioni e io mi sentivo il punto di unione fra la vecchia e la nuova generazione. Soprattutto, tanti dei nuovi li avevo visti crescere e per loro ero come un fratello maggiore, un punto fermo cui appoggiarsi in caso di bisogno“.
    Visto da fuori, da avversario, ha sempre dato la sensazione di essere un leader silenzioso, una figura capace di farsi capire senza dover imporsi a forza, anche se immagino che siano capitate situazioni in cui ha dovuto “alzare la voce”.
    “Sì, io sono stato sempre molto esigente verso me stesso, e questo mi portava a esserlo anche nelle situazioni di squadra in allenamento. Visto in maniera superficiale potevo sembrare un rompiscatole, però credo fortemente che in mezzo al gruppo ci sia bisogno di qualcuno che faccia capire quali sono le situazioni tecniche e tattiche accettabili e quelle non accettabili, perché altrimenti il livello scende troppo. Non è mai facile trovare il bilanciamento giusto fra i due aspetti, inoltre c’è già un allenatore che si occupa di questo; però se si vuole lavorare ad alto livello bisogna essere molto esigenti con se stessi, e il fatto che io lo fossi nei miei confronti, che non tollerassi di commettere errori banali, mi aiutava nell’essere da esempio per gli altri“.
    Questa frase secondo me racchiude tutto lo spessore di Birarelli atleta, e andrebbe appesa in tutti gli spogliatoi d’Italia. Se si vuole puntare in alto bisogna pretendere da se stessi e dare l’esempio ai compagni! Lei si è chiamato rompiscatole, altri usano il termine “cane da allenamento”, cioè quella figura capace di imporsi sui compagni quando la squadra abbassa la concentrazione in allenamento… è un po’ una figura che si sta purtroppo perdendo oggigiorno?
    “È così, purtroppo, ed è il motivo per cui non è cosi facile costruire una squadra vincente. C’è la necessità di avere un mix di esperienza e giovani, ma serve soprattutto una figura che riesca a capire quando il gruppo non sta dando il massimo e lo riporti sulla via dell’attenzione. Forse questa figura si è un po’ persa perché qualche ragazzo della nuova generazione, anche se non mi piace generalizzare, è un po’ permaloso e accetta meno certi confronti, ma quando si fanno queste cose non si va mai sul personale, si pensa sempre al bene della squadra.
    Credo che il punto vero sia costruire un rapporto di fiducia alla base, investire del tempo per creare una conoscenza reciproca, e dentro questo rapporto imparare a tirare la corda e lasciarla in base alle esigenze. Solo cosi si potrà rendersi utili e non essere visti come una figura esterna che ti rompe le scatole e basta. Per questo ho sempre cercato di essere in connessione con i miei compagni, per essere sicuro che capissero la parte positiva e propositiva dei miei interventi. Io poi ho sempre provato ad usare due ‘file’ diversi in allenamento e in partita, perché devo dire che in partita è meglio lasciar correre sulle cose e non destabilizzare, mentre in allenamento si hanno molti più margini per confrontarsi“.
    Foto CEV
    Lei è stato un centrale molto completo, maledettamente fastidioso con la battuta float, costante, solido e preciso a muro, anticipatissimo in attacco. Ma per il mondo del volley è soprattutto l’uomo del miracolo in battuta al torneo di qualificazione olimpica di Tokyo 2008…
    “Questa nomea sulla battuta, grazie anche all’episodio di Tokyo, mi ha sempre accompagnato, ne ho sempre fatto un punto di forza e ho cercato sempre di farmi valere. Quasi tutti i centrali top del panorama mondiale hanno una battuta al salto molto aggressiva, quindi ho dovuto sudare e lavorare parecchio per rendere il mio servizio estremamente competitivo. Per molti sono stato considerato un muratore piuttosto che un attaccante, ma in realtà grazie al mio anticipo ho sempre viaggiato su percentuali alte in attacco (spesso e volentieri ben oltre il 60%, n.d.r.), anche se poi forse mi è mancato attaccare palloni staccati e la tesa, ma erano giocate che si addicevano poco alle mie caratteristiche. A muro ho sempre lavorato tanto per la lettura del gioco, e non essendo un gran saltatore ho sempre dovuto conquistare i muri con la tecnica e la tattica, con la testa.
    Tornando a quella serie di battute, sono molto legato a quel match, che era uno dei miei primi in nazionale, perché feci molto bene anche in attacco e muro, per cui lo ricordo sempre con un sorriso. Se posso, aggiungo che quella serie fu molto importante, però ho un’altra serie sempre al servizio di cui sono molto fiero, che ricordo come un momento importante anche se poi le luci dei riflettori si sono posati su altri gesti tecnici (gli ace di Zaytsev e il muro finale di Buti), ed è la semifinale contro gli USA a Rio 2016. Abbiamo perso due set in maniera secca, ma il primo dei set vinti l’abbiamo portato a casa ai vantaggi grazie a due miei ace consecutivi, che reputo ancora più chiave di quelli contro il Giappone“.
    È stata una sua caratteristica innata quella di osare con la float anche dopo il 20 o ha avuto degli allenatori che l’hanno spinta ad essere sempre molto aggressivo? Di solito, nei finali di set, i battitori float tendono ad essere un po’ più conservativi rispetto a chi batte al salto.
    “In realtà ho avuto tanti allenatori che nei momenti caldi mi chiedevano di limitare il numero di errori ed il rischio. Diciamo che ho sempre pensato a migliorare tecnicamente, perché secondo me tanto passa da lì. Non è solo una questione di testa saper gestire la battuta dopo il 20, ma ci vuole anche una solida certezza tecnica alle spalle. Se hai la coscienza della tecnica che ti supporta, allora puoi provare a superare scogli difficili, come una battuta sul 24 pari in una semifinale olimpica! Mi sono cercato spesso degli spazi in allenamento per provare a fare uno step in più,passando per un periodo fatto anche da tanti errori, ma per approdare ad una consapevolezza e ad una crescita tecnica importante“.
    Foto FIVB
    A sentirla parlare cosi mi viene da pensare che ha tutte le carte in regola per fare l’allenatore, invece ha scelto un percorso diverso. Ce lo vuole raccontare?
    “Credo che sia normale per atleti di alto livello avere un approccio preciso e meticoloso al lavoro in palestra, però in questa fase della mia vita, dopo tante esperienze lavorative in giro, cercavo una situazione più stabile rispetto alla vita dell’allenatore, che comporta anche tanti compromessi con la vita familiare. Così è nata l’idea di appoggiarmi alla scuderia di Luca Novi e dargli una mano nella veste di procuratore“.
    Come ha vissuto da atleta il rapporto con il suo procuratore, e quali aspetti saranno i cardini in questa sua nuova esperienza?
    “È un mestiere molto complesso, fatto da tante sfaccettature. Ovviamente non ho l’idea del procuratore come una figura che ti vende ad una società, ti fa fare un contratto e poi sparisce, ma lo interpreto come una persona con cui ci si può confrontare, come una persona di fiducia, che ti può supportare nelle decisioni, nella crescita e che ti affianca non solo negli aspetti economici e contrattuali. È una figura che secondo me è parte integrante del percorso di ogni atleta, per questo penso che la scelta del procuratore e il rapporto con l’atleta sia fondamentale.
    La scelta è e deve essere sempre fatta dal giocatore, ma il procuratore deve offrire valutazioni diverse in base al tipo di giocatore che gestisce. A volte si privilegiano aspetti economici, altre scelte tecniche, altre ancora soluzioni che potrebbero valorizzare un atleta: il procuratore deve essere bravo a capire cosa vuole il suo assistito e dargli una mano ad inseguire le sue ambizioni. L’aspetto economico è sicuramente in primissimo piano, ma soprattutto con i più giovani spero che ci sarà la voglia di confrontarsi e prendere decisioni anche in base ad altri aspetti più utili per la loro crescita individuale“.
    Da ormai ex centrale, per un giovane è meglio far panchina in serie A o giocare a una categoria inferiore?
    “Penso che per un atleta, soprattutto un giovane, sia molto importante scegliere l’allenatore giusto, anche se magari l’offerta economica di quella società è un pelo al di sotto di altre. Anche la scelta della società è determinante nel percorso di crescita di un atleta. Personalmente da centrale sono convinto che andare ad assaggiare un livello alto e vedere la velocità della palla, le altezze che si toccano, la velocità di gioco possa essere molto formativo, perché ti aiuta a capire dove è posizionata l’asticella che si vuole raggiungere. Ovviamente si parla di fare un anno, al massimo due in panchina, perché poi l’esperienza sul campo diventa fondamentale per dimostrare quello che si sa fare“.
    Ultima domanda: come prima esperienza, meglio fare il procuratore di un top player, con tutte le “problematiche” che si possono incontrare, o scoprire un giovane talento e accompagnarlo verso l’Olimpo del volley?
    “Credo che siano due situazioni veramente agli antipodi: il lavoro è lo stesso ma cambia totalmente il modo di approcciare. Essendo agli inizi di questa nuova esperienza, mi piace pensare di dover fare un po’ di gavetta e quindi mi piacerebbe in questa fase collaborare con qualche giovane che sta venendo fuori e accompagnarlo nel suo percorso: ho la fortuna di collaborare con una agenzia importante e quindi spero di arrivare presto ad interagire anche con i big, ma questo lo vedremo strada facendo!“.
    E la sensazione è che anche in questa avventura il Bira nazionale porterà la sua grande professionalità e la sua voglia di lavorare day by day per crescere insieme ai suoi assistiti!
    (fonte: Comunicato stampa) LEGGI TUTTO