Di Roberto Zucca
Ogni volta che la telecamera d’ordinanza inquadra la tribuna azzurra, dopo aver passato in rassegna punto per punto il repertorio dei suoi magnifici Paolo Nicolai e Daniele Lupo, appare lui, con la sua tempra, il suo entusiasmo, quasi come se fosse ancora lì, sulla sabbia, a giocare quel punto, quella gara, quella medaglia. Matteo Varnier è molto di più di un tecnico che oggi segue la coppia italiana più vincente della storia del Beach Volley. È una storia, una leggenda che parte alla fine degli anni ’90 e che percorre una strada che, al di fuori della disciplina, non tutti conoscono così bene. Ma non rimpiange il passato:
“Io l’entusiasmo di allora lo provo ancora quando i ragazzi vincono. Non sono un ex giocatore che ha ancora la smania di entrare in campo e fare l’allenatore-giocatore. Gioisco per loro, vivo la loro partita, le loro emozioni. Ma non penso mai a quella situazione come se volessi essere al posto loro”.
Io la immagino a Rio nel 2016, con le luci spente e il romanticismo del campo vuoto. E una medaglia d’argento in tasca.
“Vorrei restituirle un’immagine altrettanto romantica, ma è stato un momento non vissuto, per il tritacarne nel quale sei immerso durante le Olimpiadi. Le parlo invece sicuramente di un’emozione immediata, ma anche di una cena consumata velocemente, pochissime ore di sonno e un aereo da prendere la mattina successiva all’alba. Le emozioni le realizzi col tempo. Se vogliamo ricordare un momento in cui ce la siamo goduta, penso sicuramente più alla semifinale”.
Mi ero sempre fatto l’idea di un Varnier nostalgico. Mi smentisca.
“Non sono assolutamente un nostalgico. Sono magari stato un solitario, uno che ha i suoi momenti in cui si estranea e pensa. Uno che tornato a casa sta bene in barca a pescare. È più una visione romantica della vita”.
La vita di un beacher. Divertimento, donne bellissime, sole e mare dodici mesi l’anno. Varnier è un anticonformista?
“C’è stato tutto. Ma io ho sempre avuto fame di vincere, perciò mi sono dedicato molto anche al lato meno goliardico del beach. A 18 anni mi allenavo ad Arma di Taggia in inverno con la sacca dei palloni e la gente che dalla battigia guardava me e le persone con cui mi allenavo in modo strano. Eravamo dei pionieri, o magari semplicemente dei sognatori”.
Torniamo lì. Due nomi su tutti hanno fatto parte della sua adolescenza: Davide Sanguagnini e Sean Fallowfield.
“Il primo lo vidi giocare ad Arma di Taggia in un tappa internazionale del Gatorade e mi innamorai del suo gioco e dello sport che praticava. Avevo 15 anni e decisi che volevo farlo anche io. Qualche anno dopo giocammo assieme qualche torneo e fu per me un grande mentore. Il secondo si trovò per caso in Italia in vacanza e un amico lo convinse a giocare con me un torneo in Liguria. Era un giocatore molto affermato e accettò di buon grado. Ci trovammo talmente bene che mi chiese di andare con lui in America ad allenarmi, ma io ero troppo giovane per lasciare la Liguria, la famiglia, gli amici”.
Il tennista Fognini ha scritto che il profumo della spiaggia di Arma di Taggia lo ha portato dietro per tutta la vita, in tutti i luoghi in cui ha giocato. È capitato anche a lei?
“Arma è un luogo bellissimo per il suo mare. È un posto che mi fa sentire a casa. Io mi sono adattato, ad un certo punto, e non ho più sofferto della nostalgia del luogo. Sento però, ovunque vado, la nostalgia del mare. Se non lo vivo mi manca. E poi sì, anche della spiaggia La Fortezza di Arma!”
Gianluca Casadei ha detto che lei rappresenta un atleta che nasce in un’era per anticipare al mondo come saranno i giocatori del futuro.
“Quando lo ha detto mi ha lusingato molto. Si riferiva forse alla parte atletica, che non era così preponderante come adesso. Ho sempre ammirato, ad esempio, la dedizione e l’allenamento di Sanguagnini. Io invece non sono mai stato uno che amava allenarsi. È buffo, se pensiamo al fatto che poi sono diventato un allenatore”.
Il suo valore aggiunto come allenatore è forse quello di ascoltare e di saper comprendere gli atleti?
“Lo faccio perché sono stato anche io dalla loro parte e perché ho capacità di immedesimazione. Credo che ogni atleta debba fare il suo percorso e che un allenatore debba essere più una supporto, una guida che un modello di comportamento”.
Lione-Varnier. Una coppia leggendaria. Le posso chiedere cosa rimane una volta che la coppia smette di giocare assieme?
“Affetto e stima sicuramente. Non capita di sentirci tutti i giorni o di vedersi spesso, per via degli impegni presi con i rispettivi lavori, ma ad esempio Riccardo è uno che non si tira mai indietro nel mandarmi dei messaggi e complimentarsi per i risultati raggiunti. Questo fa molto piacere”.
Foto Facebook Matteo Varnier
La coppia Nicolai-Lupo con lei ha vinto tanto.
“Ho scritto che abbiamo chiuso l’Europeo di Jurmala con un’altra splendida medaglia, e che sono davvero fortunato a lavorare con uno staff e con una squadra che è quella dei miei sogni. Il lavoro fatto in questi anni è stato impagabile”.
Si pensa a Tokyo. Lei dove trova gli stimoli per continuare a vincere ancora?
“Sono uno che tendenzialmente non riesce a pensarsi su un divano, soddisfatto e riposato per ciò che ha ottenuto. Ho ancora molta fame di tutto. Di vita, di vittorie, di traguardi professionali e non”.
Fanta-Beach. Dopo Lupo-Nicolai, le chiedono di allenare una coppia proveniente dalla Superlega. Mi faccia due nomi.
“Tra tutti? Leon-Grebennikov. E mi fermo qui, perché non hanno bisogno di presentazioni”. LEGGI TUTTO