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    Fefè De Giorgi, campione di sorrisi: “La gioia del gioco non si inventa”

    Di Stefano Benzi
    Non c’è alcun dubbio che il mondo dei social abbia completamente rivoluzionato il modo di percepire lo sport e i personaggi pubblici. Inizialmente i social network erano considerati uno strumento prezioso, utile a ridurre la distanza tra la personalità e il fan. Ma da tre, quattro anni a questa parte, quella che inizialmente era stata definita la reputation, ovvero la credibilità di un personaggio, si è trasformata in consideration: la sua potenzialità commerciale. Sui social network si vende: il cosiddetto product placement ha preso il sopravvento sui contenuti e qualsiasi star dei social è un venditore. A volte di oggetti, a volte di se stesso.
    Perdonate la lunga premessa che non ha nulla di narrativo, ma è utile a presentare un personaggio che gli appassionati dell’ultima generazione conoscono come allenatore credibile, autorevole. Persino un po’ serio. Ferdinando De Giorgi.
    L’aveste visto quando nella fase finale della sua attività di giocatore si prestava a fare le imitazioni, il comico, con il talento innato di chi così ci è nato, e non potrebbe mai esserlo a comando, avreste il quadro completo di una personalità che ha fatto molto bene alla pallavolo per la sua attitudine alla divulgazione e al coinvolgimento. Un istrione, un testimonial nato. Oggi sul campo gli toccano camicia bianca e cravatta e farlo sorridere non è facile: tuttavia, può bastare basta una domanda.
    Fefé, perché – indipendentemente dalla pandemia – oggi sembra che tutti si divertano un po’ meno e si fatica a trovare personaggi come lei, seri ma non seriosi? De Giorgi se la ride e si allenta la cravatta: “Prima c’era la stessa pressione che c’è oggi, magari anche di più, eppure si capiva lontano un miglio quanto ci divertissimo. Ogni squadra ha alchimie particolari che non possono essere ricreate artificialmente. Però forse un po’ è vero, anni fa, nonostante stress e pressione eravamo più comunicativi. D’altronde quando si gioca per grandi risultati lo stress è inevitabile e bisogna saperlo gestire”.
    Un paradosso: allora che non c’erano i social, un personaggio come De Giorgi era un comunicatore perfetto. E oggi ci tocca riscontrare che uno come lui, uno che sdogani lo sport come intrattenimento e divertimento anche fuori dai canali ufficiali, non c’è: “Sono tempi diversi, siamo persone diverse, dobbiamo goderci i giocatori che abbiamo oggi e che sono fenomenali indipendentemente dal fatto che magari non sanno scherzare davanti a una telecamera o strappare un sorriso con uno scherzo. È una questione di carattere e magari è anche l’ambiente che è cambiato. Oggi tutti sentono il peso del giudizio delle persone e del dover fare la cosa giusta, per la squadra, per lo sponsor, per l’immagine. Forse ai nostri tempi c’era un’altra leggerezza che oggi non si può costruire a tavolino. O c’è o non c’è. La gioia del gioco non si inventa, bisogna saperla esprimere: soprattutto in momenti come questo”.
    La gioia del gioco: una definizione meravigliosa quella di De Giorgi che ci trova del tutto d’accordo. Ecco cosa ci vorrebbe, ora più che mai, soprattutto adesso, che il distanziamento si definisce “sociale” e i social ci uniscono per finta in modo virtuale ma non virtuoso. Oggi ci occorrerebbero proprio un paio di scherzi di quelli di De Giorgi, come quella volta in cui… ma no. Questa è un’altra storia! LEGGI TUTTO

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    Francesca Ferretti intervista Martina Guiggi: “Che fatica essere mamma e giocatrice!”

    Di Francesca Ferretti
    La squadra di Volley NEWS si arricchisce di una “regista” d’eccezione: l’ex palleggiatrice azzurra Francesca Ferretti, campione d’Europa nel 2007 con la nazionale italiana, cinque volte scudettata e per anni grande protagonista del campionato italiano! Francesca intervisterà per noi le campionesse del passato e del presente per raccontare “dall’interno” tutte le sfumature della pallavolo femminile. Per inaugurare nel migliore dei modi la sua rubrica vi proponiamo l’intervista a una delle sue più celebri compagne d’avventura, in nazionale e nei club: Martina Guiggi, ex centrale della nazionale trasferitasi da quest’anno in Slovenia, dove gioca nel Calcit Kamnik.
    Foto Rubin/LVF
    Sei tornata alla pallavolo dopo la maternità: come è cambiata la tua vita, e soprattutto il tuo rapporto con lo sport?
    “Praticamente è cambiato tutto! Prima il mio unico pensiero era allenarmi e giocare, poi il resto della giornata me la gestivo con calma, tra i lavori di casa, uscire, fare shopping, dormire (ride, n.d.r.)… Adesso la bimba è la mia priorità assoluta e gira tutto intorno a lei. Bisogna cercare di preparare tutto in anticipo perché stia bene mentre io sono agli allenamenti, incastrare il mio programma con quelli di Mitar (Djuric, marito di Martina, n.d.r.) e della babysitter, e resta pochissimo tempo per riposarsi perché nei rari momenti in cui lei dorme cerco di fare tutto il resto! Ecco, in tutto questo giocare è diventato molto più stancante rispetto a prima, anche perché devi sempre pensare a mille cose e non sei mai tranquillo”.
    A proposito di maternità: cosa ne pensi del caso scoppiato a riguardo della gravidanza di Carli Lloyd?
    “Be’, quello è da sempre un punto debole della nostra organizzazione. Per la verità non soltanto la maternità, ma tutti gli aspetti legati al non essere professioniste, a partire dalla mancanza di contributi previdenziali e di riconoscimento legale. Capisco che politicamente sarebbe difficile introdurre questa riforma, però almeno per la maternità bisognerebbe fare un discorso a parte: ogni donna deve avere il diritto di essere mamma. Anche nel mio contratto qui in Slovenia c’era una clausola che regolamentava la maternità: bisognerebbe trovare una formula che tuteli un po’ tutti, giocatrici e società”.
    Come sta andando la stagione in Slovenia, e com’è giocare senza pubblico?
    “Abbiamo iniziato da qualche settimana il campionato e abbiamo partecipato alla Champions League (il Calcit è stato eliminato nel secondo turno preliminare dal LKS Commercecon Lodz, n.d.r.). Diciamo che qui è tutto un po’ più tranquillo e rilassato, anche il lavoro in palestra non è così strutturato come da noi. Per quanto riguarda le porte chiuse, è davvero strano: l’ambiente è un po’ morto, tutto sembra un po’ più lento e un po’ più buio, come se fosse un allenamento. Di certo non senti la carica che ti dà un palazzetto pieno, il livello di tensione è più basso e bisogna essere bravi a trovare un po’ di motivazioni senza l’aiuto del pubblico”.
    Ripensando alla tua carriera da pallavolista, c’è qualcosa che vorresti cambiare?
    “È una domanda difficile: a posteriori uno cambierebbe tantissime cose, ma a pensarci bene tutto ciò che ho fatto, comprese le scelte sbagliate, mi hanno insegnato qualcosa o mi ha permesso di guadagnare qualcos’altro. I più grandi rimpianti riguardano indubbiamente la nazionale, come credo anche per te: resta l’idea che forse potevano essere ripagati diversamente i tanti sacrifici che avevamo fatto, dandoci più spazio in azzurro. Però poi mi guardo indietro e penso che, se fossi stata convocata alle Olimpiadi di Londra 2012, forse non avrei conosciuto Mitar e la mia vita sarebbe cambiata… ogni cosa ha il suo perché e io mi sento abbastanza a posto con la mia coscienza, tutto quello che potevo fare l’ho fatto con il massimo impegno. E poi ci sono tutte le altre cose che non dipendono da noi”.
    Foto FIVB
    Quando eri agli inizi c’era una giocatrice a cui ti ispiravi?
    “Sì, era Manu Leggeri, con cui poi siamo arrivate a giocare insieme! Mi è sempre sembrata una persona con tanta grinta, mi piaceva il suo atteggiamento, al di là di quello che faceva in campo. La guardavo e volevo essere come lei”.
    Com’è cambiata la pallavolo rispetto agli anni della Scavolini?
    “Facile: la pallavolo moderna è molto più fisica rispetto a quello che si faceva una volta, molto più potente, magari entusiasmante da vedere, ma molto meno tecnica. Il gioco probabilmente è più scontato adesso che dieci anni fa, perché allora si puntava di più sulla tecnica, sugli schemi, sulla velocità, adesso si va di ‘bombe’ dalla prima linea o magari anche dalla seconda, per chi può, e si lavora nettamente meno su fondamentali come bagher e alzata”.
    Il post-carriera è sempre un gran problema per gli atleti: tu cosa vorresti fare “da grande”?
    “È un grande punto interrogativo in generale, e adesso a maggior ragione per il periodo di insicurezza causato dal Covid-19. Noi giocatori un po’ più ‘vecchiotti’ inevitabilmente stiamo pensando a cosa fare dopo. Una cosa che mi piacerebbe fare è provare a diventare agente immobiliare: è il lavoro che fanno i miei genitori e ho sempre messo i miei risparmi in quel settore. È una professione che non richiede grandi titoli di studio e non è legata a una zona particolare, si può esercitare anche all’estero. Ma prima viene un’idea più grande, quella di avere il secondo figlio: adesso mi concentro su questo e poi, quando Mitar sarà a fine carriera, vedremo. A lui piacerebbe fare il fisioterapista, cercheremo di conciliare le esigenze di entrambi”. LEGGI TUTTO

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    Il campionato secondo Maurizio Castellano: “Sarà una Serie A2 d’élite”

    Di Giovanni Saracino
    Tre stagioni da allenatore a Castellana Grotte – sponda Materdomini –  più le ultime cinque da giocatore sempre a Castellana, bastano per considerare Maurizio Castellano – classe 1971 ex schiacciatore di Spoleto, Ferrara, Modena, Parma, Treviso, uno che ha avuto la fortuna di giocare con gente del calibro di Pippi, Giani, Lucchetta, il compianto Bovolenta, Bernardi, Fomin, Bas Van De Goor, Papi e tanti altri che non staremo a citare – un illustre esperto di campionati di Serie A2. E allora la domanda sorge spontanea: come sarà il prossimo torneo di A2 maschile?
    “Molto interessante, competitivo. Un campionato molto difficile per il quale, certamente, conta la stagione regolare ma conta di più come si arriva ai play off e ne sale soltanto una” afferma al telefono il tecnico nativo di Vico Equense, paese vicino a Sorrento noto per la gustosa pizza al metro, anche se lui ormai è pugliese di adozione avendo messo radici a Castellana Grotte.
    “Quest’anno è stato fatto un ulteriore salto di qualità. Ci sono tanti giovani interessanti e tanti giocatori che sono arrivati dalla Superlega. La definirei una serie A/2 d’élite. Nelle ultime stagioni, specie da quando è tornata a 12 squadre, ha rappresentato un trampolino di lancio per tanti giovani. Penso a Mosca, Gargiulo, Lavia, Recine, Milan. La regola di un avere in squadra un solo straniero ha rappresentato la scelta giusta per far crescere tanti giovani“.
    Quali sono le formazioni più accreditate per lotta alla promozione in Superlega?
    “Mi vengono in mente sei squadre, tutte differenti per caratteristiche. La prima è Taranto (ex squadra di Castellano, vi ha giocato tre stagioni, vincendo un campionato di A2, n.d.r.). È stata capace di portare tanti giocatori dalla Superlega, rinverdendo i fasti del passato, e strategicamente si è lasciata una finestra aperta per l’ingaggio di un eventuale straniero da inserire cammin facendo. Taranto ha tutto per fare bene. Ha tradizione, ha staff, dirigenza, strutture, tanta gente che potrà seguirla. Insomma ci sono tante situazioni positive e si può creare un buon ciclo. Poi è chiaro che è sempre il campo ad emettere i suoi verdetti.
    Un tantino dietro Taranto ci metto Siena, che è una squadra molto rodata, con uno schiacciatore molto forte come Romanò, poi Cuneo che secondo me ha la squadra fisicamente più forte, tre bande molto alte (Preti, D’Amato, Chiappello), i centrali lunghi (Codarin e Sighinolfi), l’opposto brasiliano (Da Silva Wagner) che conosce molto bene il campionato. L’unico punto interrogativo è legato al palleggiatore (Pistolesi) che secondo me è bravo ma bisogna testarlo ad alti livelli in A2. Poi c’è Bergamo, una squadra che mi piace molto. Secondo me ha il miglior palleggiatore della categoria senza togliere niente agli altri. L’argentino Finoli, oltre a gestire la palla in modo eccelso mettendo la sua squadra nelle migliori condizioni di giocare, è uno che fa anche tanti punti. Poi ha una ricezione importante con Terpin e Pierotti.
    Cito anche la New Mater Castellana Grotte. Squadra sulla carta molto forte, con tanti giocatori esperti, sopra i 30 anni (Van Dijk, Patriarca, Rosso, Gitto, De Pandis), dei quali bisognerà verificare la tenuta fisica lungo tutto l’arco della stagione. Infine Brescia, squadra che conosce bene il campionato, composta da giocatori che stanno assieme credo da almeno tre anni. Ha un opposto mancino molto bravo (Bisi), un palleggiatore esperto e di categoria come Tiberti, due bande molto forti come Cisolla, che a 43 anni continua a giocare ad alto livello, e Galliani che è alto oltre i due metri“.
    Foto Lega Pallavolo Serie A
    Come è stato il tuo passaggio da giocatore ad allenatore? È più difficile stare in panchina o in campo?
    “Sono giovane come allenatore, ma non giovane di età. Dal 2012, quando ancora giocavo, ho sposato il progetto Materdomini. Un progetto che mirava alla crescita dei giovani mettendo loro accanto qualche atleta più anziano come potevo essere io. E da Castellana sono transitati tanti ragazzi interessanti e di prospettiva. Il passaggio da giocatore ad allenatore è avvenuto gradualmente: ho dovuto studiare tanto, dare una bella rinfrescata alla gestione della preparazione fisica e capire qual è il modo migliore, a livello gestionale, per far tirare fuori il massimo dalle persone che alleni.
    La soddisfazione più grande che ho avuto in questa, sinora breve, esperienza da coach è che a fine campionato gli atleti non volevano smettere di giocare perché fisicamente si sentivano bene. La Materdomini era diventato un piccolo paradiso. Ha raccolto buoni risultati con un budget economico limitato, creando un gruppo di lavoro affiatato che nel tempo ha talmente coinvolto i propri giocatori che più di qualcuno si è ridotto l’ingaggio pur di rimanere. Si stava bene dentro e fuori dal campo.
    Giocare è in assoluto più semplice, ovviamente se hai capacità tecniche e fisiche. Allenare è più complesso. Devi essere in grado di portare i giocatori ad essere convinti delle tue idee. Alcuni allenatori mettono sul tavolo le loro idee e chiedono ai giocatori di adattarsi. Diverso è convincere i giocatori che la tua idea di gioco è la cosa migliore per vincere. C’è chi ha le sue idee, ma resta un teorico, e chi le sue idee le fa mettere in pratica“.
    Qualche tuo critico dice che sei ancora troppo giocatore nel modo di allenare. Cosa rispondi?
    “Io penso che bisogna sempre interagire con i giocatori. Da allenatore non mi sono mai immaginato in campo. La cosa più facile da allenatore è far vedere come si fa una cosa. Più complesso è trovare il modo per farla fare. Ci sono tanti allenatori che, in mezzo al campo, fanno vedere come si esegue il bagher e magari non hanno mai giocato a pallavolo. Io ho la mia metodologia di allenamento e cerco di essere coinvolgente con i giocatori ma non significa che mi metta al loro pari. La pallavolo è cambiata, tanti allenatori non se ne sono accorti. Bisogna essere più gestionali, pur continuando ad insegnare la tecnica a tutti, perché a me non piace l’eccessiva specializzazione dei ruoli. Tutti devono sapersi cimentare in ogni fondamentale“.
    Hai preso come riferimento qualche allenatore del tuo passato da giocatore?
    “Ho preso spunto da tutti. Da giocatore ho avuto la fortuna di entrare in contatto con tanti grandi tecnici. Ho iniziato la carriera, a Spoleto, con un maestro dello sport come Pittera. Poi ho incrociato altri grandi personaggi come Prandi, Daniele Bagnoli, Lozano, senza dimenticare Monti o anche Bertoli, che magari ha avuto minori fortune in carriera ma che a livello gestionale mi ha insegnato tanto. Copiare è facile, io cerco di prendere spunto dal mio background e personalizzare il mio modo di essere allenatore“.
    Cosa vedi nel tuo futuro pallavolistico?
    “Spero di tornare ad allenare, perché per me è un piacere farlo. La pallavolo è il mio mondo da oltre trent’anni. Se trovo l’occasione giusta, alle giuste condizioni, per tornare su una panchina (in estate lo aveva sondato Lagonegro, n.d.r.) ben venga, altrimenti me ne vado in giro a vedere della bella pallavolo“. LEGGI TUTTO

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    Fabbiano: “Mi fermo per ricaricare le batterie”

    Mentre la pattuglia degli azzurri sta disputando un Roland Garros “storico”, uno dei nostri migliori tennisti ha scelto una strada diversa. Thomas Fabbiano non è volato a Parigi, e tanto meno in America per la ripartenza del tour dopo il disastroso blocco imposto dalla pandemia. Ha deciso di fermarsi, di riorganizzare la propria vita e […] LEGGI TUTTO

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    La scommessa di Riccardo Goi: “Meglio la A2 con Taranto di una Superlega anonima”

    Di Giovanni Saracino
    Cosa spinge un giocatore di pallavolo, nel pieno della carriera, dopo sette stagioni consecutive in Superlega, ad accettare una sfida in Serie A2 e per giunta in un club del Sud, a centinaia di chilometri da casa? Ce lo spiega il diretto interessato, Riccardo Goi, libero classe 1992, 260 gare in Serie A alle spalle, che ha iniziato la preparazione per la nuova stagione agonistica con il suo nuovo club, la Prisma Taranto.
    “Può sembrare una scelta azzardata ma non lo è. Ho visto il campionato di A2 crescere tantissimo di livello, credo che il prossimo sarà il campionato più competitivo degli ultimi anni – afferma il giocatore lombardo –. Sono venuto in un club che ha un suo passato, che si è ristrutturato bene ed in pochissimo tempo, che ha un’organizzazione da categoria superiore ed una squadra composta da tanti ragazzi che hanno militato in Superlega. La mia è stata una scelta ponderata. Ho guardato al progetto propostomi e pensato che sarebbe stato più stimolante togliersi qualche soddisfazione in A2, magari divertendosi anche, che disputare un campionato anonimo in Superlega. E poi avevo voglia di fare un’esperienza nuova di vita. Ero curioso di vivere una stagione sportiva al Sud. Sono molto entusiasta“.
    Ha chiesto informazioni a qualcuno sul suo nuovo club?
    “Ex compagni di squadra di Ravenna, come Patriarca o Bari – che in passato hanno giocato a Taranto – mi hanno parlato molto bene della società e della città. Il presidente Bongiovanni, in un periodo storico particolare, credo che abbia dato un segnale importante al mondo dello sport, ossia quello di voler creare qualcosa di bello e inclusivo che abbia anche dei risvolti sociali“.
    In carriera si è ispirato a qualche giocatore del suo stesso ruolo?
    “No, però ho avuto la fortuna di aver come compagno di squadra Andrea Bari, che mi ha insegnato tante cose ed ha messo la sua esperienza a disposizione dei compagni più giovani. Nonostante con Trento avesse vinto tutto a livello nazionale ed internazionale, quando abbiamo giocato assieme a Ravenna si è rivelata una persona dalla grande umiltà  ed ancora oggi mi tornano in mente alcuni suoi consigli tecnici. Mi è sempre piaciuto il suo carattere ed è stato uno che si è guadagnato, con il duro lavoro in palestra, quel che ha raggiunto. Una gran persona davvero“.
    Ha avuto la fortuna di esser stato allenato da tanti ottimi allenatori (Kantor, Conte, Bonitta, Cantagalli), alcuni dei quali hanno avuto anche una gran carriera da giocatore. Cosa le hanno lasciato?
    “Tutti mi hanno trasferito qualcosa. Bonitta, ad esempio, è stato un tecnico importante per la mia crescita, lo ha avuto a più riprese nella mia carriera e mi ha dato tanto. Mi ha insegnato la concezione di come stare in palestra. Lo stesso dicasi di Cantagalli. Io di tutti questi ex campioni, che per motivi anagrafici non ho potuto vedere giocare, ho avuto sempre gran rispetto. Entrando nell’ambiente del volley sai cosa hanno rappresentato per questo sport e quindi stai a sentire molto più attentamente quello che hanno da dirti, facendo tuo qualche consiglio tecnico che magari hanno vissuto sulla loro pelle quando erano giocatori. I coach argentini, invece, mi hanno insegnato molto dal punto di vista caratteriale. Sono delle persone calienti, ti spingono a dare sempre il massimo in campo“.
    La Prisma Volley è tra le favorite per la vittoria del torneo di A2. Quali saranno le avversarie più dure da affrontare?
    “Sarà un torneo di gran livello. Ci sono tante squadre, tutte molto ben attrezzate. Mi vengono in mente Siena, Castellana, Cuneo, Bergamo e Brescia, tutte compagini che potranno lottare per le prime posizioni in classifica“. LEGGI TUTTO

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    Matteo Piano, non la solita prima volta: “Emozioni fortissime”

    Di Stefano Benzi
    La partita di Coppa Italia contro la NBV Verona, esordio stagionale dell’Allianz Milano, ha segnato anche il ritorno in campo del capitano Matteo Piano, che ai nostri microfoni a fine gara ha parlato del suo momento molto particolare.
    Manca il pubblico e la cosa ga Piano dispiace molto, ma tutto sommato gli consente di dare libero sfogo alle emozioni che lo vedono davvero molto coinvolto al termine del match. Forse scappa anche una mezza lacrima: “Non è facile riuscire ad esprimere quello che sto provando in questo momento perché è davvero tanto, troppo da dire a parole – spiega Matteo con gli occhi lucidi – in tutti questi mesi si sono accavallati molti sentimenti, tantissimi stati d’animo e adesso faccio fatica a controllare tutto. Una cosa è certa, sono molto felice, mi sembra di aver fatto un lunghissimo viaggio, ma solo ora forse realizzo che tutto questo ha avuto un senso”.
    Il dramma di Matteo era cominciato con la maglia della nazionale in Giappone, in ottobre: lesione del legamento crociato del ginocchio sinistro; il tutto nemmeno otto mesi dopo un altro infortunio, questa volta muscolare, al polpaccio destro. Il 2019 per lui è stato un autentico calvario. Il 2020 è cominciato con la pandemia.
    In fin dei conti, con presupposti del genere le cose possono davvero solo andare meglio: “Esco da un periodo davvero molto complicato, molto difficile, e mi dico che sono stato bravo perché sono riuscito ad affrontarlo tutto sommato serenamente, gestendo le cose giorno per giorno e cercando di vedere sempre una prospettiva davanti a me. Posso garantire che per un atleta, quando si affrontano infortuni seri come quello che ho dovuto affrontare io, non è facile. La pandemia poi ha complicato tutto ma ora sono qui, a raccontarlo. E sono molto contento”.
    L’emergenza sanitaria gli ha rovinato il momento più bello, quello del rientro, quando forse avrebbe voluto intorno tutte le persone che nel corso di questi mesi gli sono state vicine sui social anche dopo aver letto il suo libro, “Io, il centrale e i pensieri laterali”: “Non mi sono mai sentito particolarmente solo – dice Piano – ma ammetto che oggi avrei voluto vedere un bel po’ di gente intorno, tutti quelli che mi hanno scritto, incoraggiato, sostenuto. Sarebbe stato bello vedere una tribuna piena e alla fine della partita lasciarmi abbracciare. Purtroppo non si può, lo accetto, è uno dei tanti limiti che questa stagione così difficile ci impone. Ma guardiamo avanti: siamo di nuovo in campo, stiamo giocando e siamo entusiasti di farlo. Stiamo facendo di tutto per dimostrare alla gente della pallavolo che il nostro sport ha un grande futuro e ha soltanto bisogno della sua gente di nuovo intorno, non appena questo sarà possibile”.
    Il capitano dell’Allianz Powervolley spende parole splendide per i suoi compagni di squadra e per l’allenatore, Roberto Piazza: “Ai miei compagni voglio molto bene, siamo molto uniti dentro e fuori dal campo. Ci stiamo dimostrando molto esigenti nei confronti di noi stessi e del gruppo, stiamo lavorando con molto impegno, con grande dedizione. Piazza sostiene che io quest’anno sia il vero nuovo acquisto della squadra e tutto sommato forse ha ragione. In fin dei conti quello che sto facendo quest’anno è qualcosa di completamente diverso rispetto a quello che ho fatto lo scorso anno quando avevamo iniziato la stagione insieme”.
    Matteo, come al solito, si racconta con la consueta franchezza e rivela un retroscena interessante: “Stiamo vivendo un momento storico, diverso da tutti gli altri e sotto questo aspetto c’è bisogno di aiuto, di appoggio. Ho parlato del mio rientro in campo con la mia psicologa dello sport e la cosa interessante è che adesso è lei curiosa di sapere quale sarà la mia esperienza in un momento davvero atipico. La settimana scorsa al termine di un amichevole una signora di ottant’anni mi ha avvicinato e mi ha detto ‘il pubblico è la forza’. Lo confermo, il pubblico è davvero la forza e te ne rendi conto quando non c’è, come in questo caso. Dovremo fare un lavoro di gruppo per essere noi il pubblico di noi stessi, farci forza e darci la carica in attesa che il pubblico sia di nuovo al suo posto”. LEGGI TUTTO