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    Matteo Battocchio: “Non pensavo che saremmo arrivati a questo livello”

    Di Stefano Benzi Matteo Battocchio si trova nella non facile posizione di chi ha fatto talmente bene nella stagione appena conclusa da dover quasi promettere a tutti i costi qualcosa. Ma vale la pena anche ricordare come il Pool Libertas Cantù sia arrivato a un risultato insperato, i quarti di finale dei play off, cedendo solo davanti alla corazzata Taranto. E dire che la squadra sembrava avere ancora un bel margine di miglioramento: “È vero – dice Battocchio – siamo usciti contro la squadra più forte, conquistando un solo set in due partite, ma ce la siamo giocata alla pari e senza paura. Se devo essere completamente sincero, a inizio stagione non pensavo saremmo arrivati a questo livello. E se devo dirla tutta, mi sarebbe piaciuto se il torneo fosse durato ancora un pochino. Perché stavamo crescendo“. Il tutto considerando una stagione davvero strana, nella quale Cantù è stata sicuramente la squadra costretta a confrontarsi con il calendario più bizzarro in assoluto: “Tutte le società hanno avuto i loro problemi, perché la pandemia ha penalizzato tutti – continua il coach – ma noi siamo stati gli unici a stare fermi per settimane per poi recuperare turni di gioco all’impazzata, uno dopo l’altro con trasferte davvero problematiche. Ancora oggi mi chiedo perché e se non ci fosse un modo migliore e più equo di organizzare le cose. Ma ormai è andata“. Photo credit: Patrizia Tettamanti Lo spirito di adattamento della squadra è stata la grande qualità che ha portato fino a un risultato insperato: “Indubbiamente abbiamo imparato molto su noi stessi e sulla gestione del gioco, certe fragilità che avevamo all’inizio e che ci sono costate dei punti alla fine della stagione erano state decisamente rimosse. Abbiamo chiuso in crescita, migliorando e con la possibilità di pensare che tutto sommato potesse andare anche meglio di com’è andata“. Motzo, richiestissimo, resta a Cantù. Arrivano lo schiacciatore Sette da Ortona, il centrale Copelli da Santa Croce, il giovane Giani dalla B1 di Monza ma soprattutto Manuel Coscione, che dopo avere guidato Taranto in Superlega sostituirà in pallggio l’estone Viiber. Una bella sorpresa: “Abbiamo scelto un uomo di spessore e ringrazio il presidente che fino a questo momento, non senza enormi sacrifici, sta disegnando la squadra che pensavo. Manuel aiuterà i giovani a crescere e conto sul fatto che potrà avvicinare tante persone convincendole a tornare al palazzetto. Mai come ora abbiamo bisogno della nostra gente, della loro presenza“. Manca uno schiacciatore di peso: “Non c’è fretta – conclude Battocchio – vediamo che cosa si muove e quali possibilità ci sono. La società sa con chi mi piacerebbe lavorare. Se ci saranno opportunità saremo sicuramente pronti a coglierle. Mi aspetto una A2 molto equilbrata, di alto livello ma soprattutto molto competitiva e compatta. Saranno poche le cose che faranno la differenza“. LEGGI TUTTO

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    Nuova sfida per Madison Lilley: “Cerco sempre di uscire dalla mia comfort zone”

    Di Alessandro Garotta Malgrado non abbia prerogative di avanguardia dal punto di vista tecnico-tattico, la pallavolo del campionato NCAA femminile mantiene sempre salda la capacità di generare una grande attenzione mediatica attorno a quelle giocatrici che hanno la bravura e la fortuna di sfoderare delle ottime prestazioni al momento giusto, lasciando intravedere mezzi tecnici evidenti abbinati a un’età che lascia sognare margini di crescita senza limiti.  Alla palleggiatrice Madison Lilley è bastato guidare le Kentucky Wildcats alla vittoria dello storico primo titolo nella Division I per far scattare il meccanismo. Così, uno dei più grandi talenti statunitensi, con un biglietto da visita importante a livello giovanile, è diventato in breve tempo l’oggetto del desiderio di molte squadre europee. Alla fine, Lilley – in collaborazione con l’agenzia Athletes Abroad Management – ha scelto l’SC Potsdam in Germania come prima destinazione di una carriera che si preannuncia di successo.  Ecco la nostra intervista esclusiva all’MVP delle ultime finali NCAA.  Madison, per iniziare parlaci un po’ di te, del tuo carattere, dei tuoi hobby.  “Ho 22 anni, e non vedo l’ora di iniziare la mia carriera pallavolistica oltreoceano e nel frattempo andare alla scoperta di altre culture. Per carattere cerco sempre di uscire dalla mia comfort zone e provare cose nuove. Mi piace leggere e fare piccoli lavori manuali, queste sono le attività a cui mi dedico nel tempo libero“.  Foto Instagram Madison Lilley Quando hai scoperto il tuo talento per la pallavolo? E come sei diventata una palleggiatrice?  “Ho iniziato a giocare a 9 anni. Posso dire di essere cresciuta guardando mia madre allenare: ero sempre in giro per seguire le sue partite, fino al momento in cui la mia passione per questo sport ha incontrato il talento e l’opportunità. Infatti, il mio primo allenatore (Phil Craven, n.d.r.), ex giocatore della nazionale statunitense maschile, aveva grande occhio nello scovare giocatrici di prospettiva, anche molto giovani. È stato lui ad affidarmi il compito di alzatrice della squadra, e da allora non ho mai smesso di ricoprire questo ruolo in campo“. Poi com’è proseguito il tuo percorso giovanile prima del college?  “A 15 anni avevo già un accordo con l’University of Kentucky, ma prima di andare al college, ho vinto il campionato statale e quello nazionale (con la Blue Valley West High School, n.d.r.): perciò, sono arrivata in NCAA già con l’idea di cosa si prova a vincere“.  Come giudichi l’esperienza nel volley universitario con le Kentucky Wildcats e quanto è stata importante per te?  “I miei 4 anni alla University of Kentucky hanno avuto un impatto talmente significativo nella mia carriera che è difficile da descrivere a parole. Ho imparato ad allenarmi con costanza e competere ad alto livello, oltre ad avere avuto la possibilità di guidare altre persone nel percorso che ha permesso a me stessa di crescere come persona e atleta“. Foto Kentucky Volleyball Da senior hai guidato Kentucky alla vittoria del suo primo titolo. Cosa hai pensato dopo aver raggiunto questo traguardo?  “Alzare il trofeo dopo 9 mesi in cui ci siamo rimboccate le maniche e abbiamo lavorato con grande sacrificio – in un contesto generale difficile per tutti – mi ha fatto dire ‘ne è valsa la pena’. La fatica, il sudore e le lacrime hanno reso quel momento ancora più bello“.  Sei stata nominata National Championship MVP, SEC Player of the Year, AVCA All-Southeast Region Player of the Year e inserita nel First Team All-American (solo un altro atleta della University of Kentucky ci è riuscito nella sua disciplina: la stella NBA Anthony Davis). Qual è il segreto del tuo successo? “Be’, in realtà non c’è un vero e proprio segreto: semplicemente è questione di lavoro duro e impegno costante. In generale, cerco sempre di tenere gli obiettivi di squadra ben fissi nella mente, ma allo stesso tempo è fondamentale la motivazione interiore di diventare la migliore in assoluto“.  Cosa ti ha insegnato questa stagione, così positiva per te?  “La più grande lezione che ho imparato è che il successo non arriva mai senza sacrificio: ho compreso più che mai il significato di questo concetto. Inoltre, non saremmo mai riuscite a vincere come squadra senza il contributo di ogni giocatrice e l’impegno per un obiettivo comune“.  La tua carriera da professionista avrà inizio nella Bundesliga tedesca. Come mai hai scelto l’SC Potsdam?  “Sono davvero entusiasta di fare la prima esperienza oltreoceano all’SC Potsdam: quando dovevo decidere in quale squadra andare a giocare, era senza dubbio quella che spiccava tra tutte le altre. Gioca ormai da tempo ad alti livelli, ha una buona organizzazione e si trova in una città molto bella, poco fuori Berlino“. Foto SC Potsdam Cosa ti aspetti da questa nuova avventura?  “So che può sembrare strano, ma andrò in Germania senza particolari aspettative. In questo modo, sarà l’esperienza stessa a svelarsi per ciò che è realmente, e quindi non mi farò influenzare da come l’ho immaginata o desiderata“.  Un obiettivo che ti piacerebbe raggiungere a Potsdam?  “Vorrei fare tutto il possibile per vincere la Coppa di Germania“.  Sogni di vestire la maglia della nazionale seniores un giorno?  “Far parte del Team USA non può che essere un onore, soprattutto per l’opportunità di giocare insieme ad alcune delle migliori giocatrici al mondo. Rappresentare gli Stati Uniti è sicuramente qualcosa che ho sempre sognato“. LEGGI TUTTO

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    Arina Fedorovtseva al Fenerbahce: “Una tappa importante della mia carriera”

    Di Alessandro Garotta Finalmente è arrivata l’ufficializzazione per una delle trattative più interessanti dell’ultimo mercato: Arina Fedorovtseva è una giocatrice del Fenerbahce Opet Istanbul. A soli 17 anni, la giovane stella russa lascia dunque il paese d’origine, in controtendenza rispetto alla maggior parte delle connazionali, per entrare in uno dei più ambiziosi club d’Europa. Un trasferimento sorprendente ma non troppo per una schiacciatrice che è già andata ben al di là della definizione di “giovane promessa”, imponendosi all’attenzione generale con la Dinamo Kazan e con la nazionale russa. Ecco la nostra intervista esclusiva alla giocatrice russa, a tutti gli effetti una predestinata del volley europeo. Arina, com’è nata la tua passione per la pallavolo? È stato qualcosa di naturale, nonostante che tuo padre (Sergey Fedorovtsev) sia stato un grande campione di canottaggio?  “Certo, la pallavolo mi ha attratto prima di tutto in quanto sport di squadra. A mio parere, è una disciplina molto bella da vedere, spettacolare ed emotiva, che non può che piacere“.  Chi erano i tuoi idoli e le giocatrici che ti piacevano di più quando eri piccola?  “Da bambina, mi capitava molto spesso di guardare partite ed essere ispirata da fuoriclasse come Lyubov Sokolova, Sheilla Castro, Bethania de la Cruz, mentre nel volley maschile seguivo sempre Sergey Tetyukhin. Ognuno di loro è un giocatore unico, da cui si può imparare tanto“.  Foto VC Dinamo AK-Bars Com’è stato l’inizio del tuo percorso? Sei stata selezionata dalle giovanili di una squadra di alto livello?  “Sì, sono stata notata in alcune competizioni juniores e sono stata chiamata per giocare nel settore giovanile della Dinamo Kazan. È stato proprio con questa società – sotto la guida di Nikolai Mikhailovich Sorogin – che è iniziata la mia carriera a livello professionistico“. Quanto è stata importante per te l’esperienza alla Dinamo Kazan?  “Indubbiamente è stata una tappa importante per la mia carriera, un’esperienza davvero impagabile. È stato bello avere l’opportunità di giocare con le migliori giocatrici della pallavolo russa e mondiale: per esempio, ho trovato molto preziosi gli insegnamenti ricevuti in allenamento da una campionessa come Bethania de la Cruz“. Quando hai capito che saresti diventata una giocatrice di primo piano?  “Al momento non penso di essere una top player, c’è ancora tanta strada da percorrere. Però, posso dire di avere sempre avuto lo stimolo di giocare nella squadra più forte e questo mi ha permesso di migliorarmi: ovunque abbia giocato ho imparato qualcosa e fissato nuovi obiettivi, così gradualmente ho raggiunto il mio attuale livello“.  Foto VC Dinamo Kazan Che cosa pensi quando vieni descritta come un astro nascente della pallavolo o come la speranza per il futuro della nazionale russa?  “Naturalmente è sempre molto piacevole quando il proprio talento, il proprio lavoro e il contributo ai risultati della squadra vengono riconosciuti e apprezzati; per me questa è davvero una forte motivazione ad impegnarmi ancora di più“. Quali sono stati i migliori momenti della tua carriera finora?  “Potrei citare tre importanti traguardi: sicuramente, la vittoria agli Europei Under 18 del 2020, poi le prime partite di Champions League e infine la chiamata nella nazionale seniores. In generale, però, penso che i successi più importanti e suggestivi debbano ancora arrivare“. Ora una nuova avventura con il Fenerbahçe Opet Istanbul. Come mai hai deciso di andare a giocare in Turchia?  “Quando mi è stato offerto di trasferirmi al Fenerbahçe, ho intravisto prima di tutto l’opportunità di misurarmi in un nuovo campionato, di lavorare insieme a grandi giocatrici e a un nuovo allenatore. Questo è un passo molto importante della mia carriera e sono felice di entrare a far parte di un grande club, ricco di storia“.  Quali sono le tue aspettative?  “Le aspettative sono molto alte. Non vedo l’ora di unirmi alla squadra e intraprendere un percorso che mi possa condurre a nuove vittorie e nuovi trofei“.  Foto FIVB Prima, però, ti aspetta un’estate in nazionale con tante nuove sfide, tra cui le Olimpiadi. “Non vedo davvero l’ora che inizi questa sfida e possa vivere l’atmosfera delle grandi competizioni internazionali. Mi aspettano tornei che non ho mai giocato, nuove avversarie e un livello di gioco ancora da scoprire: tutto molto interessante e stimolante!“.  Quali sono i tuoi sogni e obiettivi come giocatrice?  “Solitamente non mi pongo obiettivi sotto forma di trofei. Prima di tutto, per me è importante vincere, indipendentemente dall’importanza e dal livello del torneo“. Chiudiamo con i tuoi hobby. Cosa ti piace fare al di fuori dalla pallavolo?  “Nel tempo libero mi piace molto fare passeggiate; in generale, preferisco fare attività all’aria aperta. Amo anche cucinare, soprattutto dolci, e spesso li preparo per la mia famiglia. Poi c’è la musica, che è parte integrante della mia vita e mi aiuta a concentrarmi“.  LEGGI TUTTO

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    Carlo Parisi: “Al volley del Sud mancano cultura e capacità dirigenziale”

    Di Agnese Valenti Prosegue il nostro viaggio nella pallavolo al Sud: un ciclo di interviste ad esperti, dirigenti, allenatori e giocatori per conoscere meglio la realtà del nostro sport nelle regioni del Mezzogiorno. Il protagonista dell’intervista di oggi è Carlo Parisi, allenatore di lunga esperienza nato a Catanzaro e cresciuto sportivamente a Messina, prima di diventare uno dei tecnici più apprezzati a livello italiano e internazionale con un curriculum ricco di successi. A lui abbiamo chiesto di raccontare la sua esperienza e di esplorare prospettive, limiti e potenzialità del pallavolo alle latitudini più meridionali dello Stivale. Dopo 8 stagioni a Messina (2 da vice allenatore per poi passare a head coach), la sua carriera si è sviluppata spostandosi sempre più a Nord: a Roma, a Chieri, per arrivare alla sua esperienza finora più longeva (11 stagioni) a Busto Arsizio. Lei crede che se, ipoteticamente, avesse scelto o le avessero proposto di rimanere in una società del Sud, sarebbe riuscito a raggiungere gli stessi obiettivi e risultati? “È una domanda molto difficile, ma voglio essere schietto: non credo. Nel momento in cui sono andato via da Messina, ho avuto la possibilità di spostarmi a Roma (sempre in A2), dove sono stato tre anni. La situazione in Sicilia stava evolvendo in senso negativo: ci sono stati gli anni d’oro – sono parte di quella storia di Messina – con la storica promozione in A1, ma sempre accompagnata da una situazione molto difficile da gestire, soprattutto dal punto di vista economico. Non credo che il mio percorso di Busto Arsizio si sarebbe potuto sviluppare allo stesso modo a Messina. Lo dico con grande rammarico: da quando sono andato via fino ad oggi, ciò che è successo parla chiaro. Quelli sono stati anni a cui non è stato dato un seguito“. Vede come una scelta forzata quella di lasciare il Sud per cercare di fare carriera e portare avanti un progetto più ampio? “Questo è un discorso abbastanza complesso: potrei rispondere allo stesso modo con un sì, ma anche con un no. La situazione è abbastanza complicata al Sud, basta vedere la geografia pallavolistica. Sono andato via ormai tantissimi anni fa e pur mantenendo i contatti con coloro con cui ho vissuto i miei anni a Messina, sia ciò che loro mi raccontano e sia ciò che leggo mi dice che – purtroppo – se qualcuno vuole proseguire questa carriera (già complicata di suo), ci vogliono una passione smisurata e una grande voglia di confrontarsi con gli altri. Una volta che sono andato via da Messina, inevitabilmente la mia vita si è spostata al Nord, anche per motivi privati: la mia compagna Marianna è di Novara“. Foto Facebook Vbc èpiù Casalmaggiore Cosa ne pensa della presenza limitata di società di pallavolo meridionali ad alti livelli e di giocatrici del Sud in formazioni del Nord e anche in nazionale, nonostante che questa attività sportiva sia ampiamente diffusa al meridione? “Quello che secondo me manca al Sud è una cultura e una capacità dirigenziale. A volte c’è un po’ di improvvisazione, a volte mancano le risorse. So che ci sono ovviamente ottimi allenatori anche al Sud, che c’è un movimento pallavolistico che purtroppo non riesce mai ad emergere, ma non si riesce mai a costruire qualcosa di duraturo. Tutto si scioglie come la prima neve al sole. Lavorare sulla crescita dei giocatori e delle giocatrici e sull’attività giovanile è un impegno e un investimento che richiede risorse. A volte è importante avere una società che trascina, come punto di riferimento, ma spesso dietro non c’è un lavoro che possa dare continuità, se eventualmente ci dovessero essere delle difficoltà. Ci sono delle realtà nel Meridione che si dedicano alla realtà giovanile, ma ci vogliono molti investimenti: le attività giovanili costano quasi più di una squadra che milita in una categoria superiore. Ci vogliono appassionati e gente che ha voglia di lavorare: i risultati non si ottengono nell’arco di poco tempo, ci vogliono molti anni. L’attività giovanile è quasi una missione: c’è bisogno che sia un obiettivo principale“. Quali sono i principali ostacoli che si incontrano al Sud dal punto di vista economico? “A Messina noi eravamo sostenuti dagli sponsor, indubbiamente fondamentali, ma dietro c’erano i ‘famosi’ contributi regionali da cui siamo dipesi per anni e anni. Oggi si vede una situazione che non è molto diversa da quella che lasciai io: ciò non vuol dire che non ci siano gli appassionati, ma il problema è che a volte si guarda troppo nel proprio orticello e si tende a tenerselo stretto. Non c’è stata una vera collaborazione tra società nella pratica. Non parliamo poi del disastro che ha provocato la pandemia: ad una situazione già complicata si è aggiunta la devastazione creata da attività sospese, scuole chiuse… al momento la situazione è molto difficile. La mia sensazione è che al Nord ci siano maggiori possibilità dal punto di vista dell’impiantistica e del materiale umano. Per quanto riguarda le sovvenzioni si apre un altro capitolo: lo sport ha sempre risentito parecchio di tutti i tagli che sono stati fatti alla spesa pubblica. Viviamo in un’epoca in cui si fanno tagli persino alla sanità, e sappiamo benissimo i risultati che ci sono stati. Si può anche entrare nel campo della qualità delle persone che ci governano, ma è un discorso molto ampio“. Foto Rubin/LVF Il problema, però, sembra non essere solo economico… “Quello che mi preme dire è che ci vogliono persone che abbiano passione e un’idea ben chiara in testa: la passione non è una cosa che alla prima difficoltà o al primo non-risultato crolla. La passione è quell’energia che ti porta ad andare sempre avanti, a guardare fisso l’obiettivo da raggiungere e cercare di creare le condizioni che ti portano a raggiungere quel determinato obiettivo. Ci sono tante realtà che lavorano nel giovanile, e che ormai sono ben conosciute in Italia. Tante altre società stanno cercando di stare in piedi, stanno cercando di rimanere a galla, e sono queste società che c’è bisogno di incentivare e stimolare a poter sviluppare ancora di più questa passione ed energia. La mia sensazione è questa: vedo che ci si arrende con troppa facilità, che quello che si sbandiera come ‘grande motivazione’ sparisce con eccessiva semplicità“. Ci fa qualche esempio concreto? “In Sicilia abbiamo Marsala, che è in A2 Femminile, mentre nel maschile ci sono meno realtà importanti. Un bacino come quello di Catania, che è sempre stata una città che ha dato talenti in Italia e che ha sempre avuto uno sviluppo della pallavolo altissimo, vive delle difficoltà ma si continua a lavorare. Il problema è che bisogna esserci dentro per capire i veri problemi. In Calabria c’è Soverato che, come sappiamo tutti, ogni anno riesce a finanziare un campionato di A2, ma non sembra che dietro ci sia qualcosa di concreto e duraturo, a parte gli sforzi del presidente Antonio Matozzo. Bisogna capire cosa realmente si vuole. Una realtà come Vibo Valentia è già diversa: da tanti anni è lì, quest’anno in particolare ha fatto molto bene. Questo può portare visibilità, può portare sponsorizzazioni, può portare tanta gente che si avvicina, però dietro ci deve essere un progetto solido che supporti tutto il resto. Un progetto duraturo con le idee molto chiare. Io penso che anche a livello dirigenziale bisognerebbe fare un percorso di formazione, come facciamo noi allenatori. Quando ero più giovane prendevo la macchina e andavo dappertutto: da Messina ero anche arrivato a Pordenone per seguire gli allenamenti della nazionale juniores. Questa è la voglia di confrontarsi e aggiornarsi. A livello dirigenziale non si fa un lavoro abbastanza qualificato per sapere di cosa veramente si parla: non è solamente la sponsorizzazione, piuttosto che il contributo pubblico, è tutto una serie di componenti che rendono una società strutturata, solida e con delle idee ben chiare“. Un ostacolo allo sviluppo del volley al Sud è la carenza di strutture, lei in questo senso che esperienza ha avuto? “Nel Sud la carenza di impianti è sempre stato un enorme problema. Basta guardare dove gioca la prima squadra di Messina, una formazione di B1 (Akademia Sant’Anna), con cui io ho vissuto la mia promozione in A1, che ha dovuto sospendere gli allenamenti perché pioveva dentro la struttura. Pur vivendo lontano da Messina da tanti anni, so che purtroppo lì la situazione è complicata. Quest’anno non fa testo: con il Covid ci sono state delle difficoltà che hanno coinvolto tutta Italia. Campionati sospesi, modificati, squadre che hanno rinunciato a fare il campionato con tante atlete e tanti atleti che sono rimasti a casa. Mi ricordo che quando a Messina sono entrato nel palazzetto, c’era la scuola, c’era il corso delle ‘mamme’ che andavano a fare attività (ride, n.d.r.)… poi piano piano, con una società che si è strutturata, che ha lavorato anche sul territorio, siano riusciti a guadagnarci i nostri spazi. Soprattutto grazie alla società che si è avvalsa di persone volenterose, di un allenatore con una lunga esperienza in serie A, che ha dato tutte le informazioni necessarie per collaudarsi, per superare i gineprai della burocrazia, per cercare di trovare degli spazi a gomitate, per cercare di far crescere una squadra che negli anni ha poi raggiunto una promozione. Poi però la squadra non è stata in grado di mantenersi, perché non c‘era dietro la possibilità economica per poter reggere una situazione del genere. Oggi le persone che conosco non mi dicono cose molto diverse. Ci sono sempre delle realtà diverse, delle situazioni differenti, qualcosa che emerge c’è sempre. Però i risultati si vedono col tempo e con la pazienza“. Foto CVF Lei è stato CT della nazionale ceca per tre anni: com’è stata la sua esperienza all’estero e quali differenze ha trovato con il sistema italiano?  “La mia esperienza con la Repubblica Ceca è stata molto positiva. È ovvio che essendo una nazionale hai meno problemi rispetto a quelli che una società di club potrebbe affrontare. Ci allenavamo d’estate, quando molte delle squadre erano ferme, però quello che ho incontrato è un paese che forse è rimasto ancorato a vecchie idee e non si è abbastanza evoluto. Parlo ovviamente del femminile: basta guardare il campionato ceco al momento. Un campionato in cui la squadra di vertice farebbe fatica in una nostra A2. Il livello è ‘così-così’: gli allenatori stessi non sono molto contenti di dover accettare la presenza di un tecnico straniero. In tre anni di lavoro avrò visto, per esagerare, una decina di allenatori, nonostante avessimo girato il paese in lungo e largo. È stata comunque un’esperienza positiva: ci si confronta con realtà, culture e abitudini diverse e questo non può che essere un arricchimento. Da un punto di vista pallavolistico, magari mi sarei aspettato qualche cosa in più. Ho avuto anche le mie soddisfazioni: ho fatto esordire in nazionale una ragazzina di 16 anni, azzardo che alla fine ha avuto i suoi aspetti positivi. Ho conosciuto tante atlete che anche in questi anni ho incrociato. A livello di strutture e organizzazione, qualcosina da dire ci sarebbe“. Ha anche allenato due club esteri, in Azerbaijan e Francia. “L’Azerbaijan è una realtà su cui c’è poco da dire. C’erano squadre che si facevano la guerra tra di loro: molte squadre erano legate ai ministeri o alle università. Viaggiavano quantitativi di soldi industriali, e si cercava di prendere i giocatori migliori per portarli lì. Dietro non c’era nulla: sia allora che ora. Una volta che sono finiti i soldi, il campionato azero non esiste più. La Francia è un pochino come da noi. Tolte alcune squadre della serie A (Mulhouse, Cannes, Béziers, Le Cannet), siamo andati a giocare in campi dove lo stesso allenatore ci montava la rete per gli allenamenti della mattina, oppure squadre che in trasferta si presentavano solo con l’allenatore in panchina. Ci sono però squadre che sono molto ben strutturate, c’è anche un’assistenza sanitaria, qualcosa di molto diverso da noi. È gestita meglio e c‘è più tutela, dato che atleti e allenatori sono professionisti. Nella serie A italiana abbiamo visto un po’ tutto. C’è anche un’altra differenza: l’allenatore tende ad essere sia allenatore che direttore sportivo. Si appoggiano molto a quello che fa e dice il tecnico. A differenza di ciò che succede da noi, in cui ci sono realtà in cui l’allenatore ha un peso specifico, ma anche altre situazioni in cui le società si muovono in maniera diversa. Lì quasi tutto dipende dall’allenatore, è lui che si deve muovere per costruire la squadra, finché la società lo può supportare. Ci sono anche altri fattori: noi ad esempio abbiamo fatto anche un corso per insegnare. Siamo a tutti gli effetti professori di scuola. C’è una visione diversa rispetto all’Italia. Poi ovviamente ci sono anche i contro, ma ci sono molti vantaggi“. LE PUNTATE PRECEDENTI:1. La questione meridionale nel volley: perché manca il Sud ad alti livelli?2. Filippo Maria Callipo: “Sacrificio e costanza, le chiavi del successo di Vibo” LEGGI TUTTO

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    La Corea di Roberto Santilli: “È stata la mia stagione più difficile”

    Di Eugenio Peralta La capacità di esportare allenatori di alto livello è uno dei marchi di fabbrica della nostra pallavolo: sono innumerevoli i tecnici italiani che hanno conquistato campionati e trofei all’estero. Ma Roberto Santilli non è solo uno dei tanti: il titolo di V-League vinto con i KAL Jumbos si può considerare una doppia impresa. Innanzitutto perché Santilli è il primo coach straniero ad allenare e vincere in Corea del Sud (e sembra aver aperto una strada, tanto che la squadra della Korean Air ha scelto per sostituirlo il finlandese Tommi Tiilikainen), e poi perché lo ha fatto nel contesto forse più ostico possibile per un carattere indipendente e “ribelle” come il suo. A raccontarcelo è lo stesso allenatore romano in una chiacchierata che tocca anche il tema della sua prossima avventura: nella prossima stagione guiderà infatti lo Ziraat Bankasi Ankara, prendendo il posto di un altro tecnico italiano reduce dalla vittoria del proprio campionato, Giampaolo Medei. Cominciamo dalla Corea del Sud: com’è andata quest’ennesima esperienza all’estero della sua carriera? “Be’, ne ho vissute tante, ma devo dire che questa le supera tutte per difficoltà e diversità. In un mondo globale, in cui ormai è assodata la circolazione di persone, merci e idee, la Corea è una realtà ancora chiusa e soddisfatta di esserlo, che non ci tiene per niente ad aprire le barriere. Mi aspettavo di trovare un terreno fertile in cui seminare, e invece mi sono accorto subito che questa condizione non c’era. Ho incontrato tantissime resistenze, molto più forti ad esempio rispetto al Giappone, nel cercare di introdurre un approccio più globale alla pallavolo. È davvero difficile riuscire a convincere le persone a porsi e comportarsi in modo diverso“. Foto KAL Jumbos A che tipo di resistenze si riferisce? “Soprattutto organizzative e burocratiche, ma anche dal punto di vista tecnico. Un esempio pratico è quello dell’utilizzo dei giovani: in Corea c’è una rigidissima gerarchia, nella pallavolo come negli altri ambiti della società, in base alla quale sono i più vecchi a dettare le regole e i giovani non hanno spazio. Una costruzione sociale che è contraria ai miei principi, perché sono un democratico convinto… Così mi sono trovato a mandare in campo molti giocatori che non avevano mai avuto occasione di giocare, cercando di sostenere e dare fiducia ad atleti giovani che spesso erano i primi a non credere in loro stessi“. Siete riusciti a vincere nonostante il cambio in corsa dello straniero, un problema non da poco in Corea… “Nella V-League c’è la filosofia secondo cui lo straniero deve essere il terminale d’attacco principale, quello a cui arrivano tutti i palloni. Ma da noi Villena è arrivato infortunato e così ho dovuto ricostruire un modello di gioco più simile al nostro, basato sulle responsabilità condivise, sul gioco di squadra: concetti non facili da far passare. Alla fine più del 50% delle nostre vittorie sono arrivate senza lo straniero in campo e abbiamo vinto sia la regular season sia i play off, cosa che in Corea non succede praticamente mai“. Ma l’idea di restare alla guida della squadra non è mai stata in discussione? “Sinceramente no, la separazione è stata consensuale. Era evidente che non c’erano le condizioni per andare avanti, da parte mia ma tutto sommato anche della società“. Fuori dal campo, invece, com’è stata la sua esperienza? “La vita in Corea è tranquilla e piacevole, è un paese agiato e con un buon livello di benessere. Non c’è microcriminalità, nel senso che non esiste del tutto, e non abbiamo avuto neppure grosse limitazioni legate alla pandemia. Le società sono molto organizzate, anche perché appartengono tutte a grandi multinazionali: non hanno certo problemi di budget, si può avere praticamente qualsiasi cosa di cui si abbia bisogno. Basti pensare che in palestra avevamo un maxischermo di 6 metri per 4…“. Avete avuto modo di vedervi con Valentina Diouf, l’altra italiana in Corea? “Sì certo, anche se in gran segreto (ride, n.d.r.), perché le società non gradiscono molto che gli stranieri si ritrovino tra di loro. Ci siamo incontrati qualche volta per una cena a casa, il marito di Valentina tra l’altro è di Roma e ci siamo trovati subito bene!“. Foto Instagram Korean Air Jumbos Adesso, tanto per non farsi mancare nulla, la aspetta un altro campionato con un bel po’ di pressione come quello turco… “Io sono convinto che per fare questo lavoro a certi livelli la pressione ce la devi avere dentro. Per me era un sogno diventare allenatore e ci sono arrivato partendo dal basso, quindi sono stato il primo a mettermi pressione da solo: le condizioni esterne non fanno una grande differenza“. Cosa si aspetta dalla nuova stagione allo Ziraat Bankasi? “In realtà ero pronto a fare un po’ di vacanze… Ma sono molto contento di essere stato contattato, aggiungo un’altra bandierina al mio Risiko! Sto facendo la quarantena in Italia e non ho ancora avuto modo di andare in Turchia, ma ho già scoperto una realtà molto organizzata, oltre che molto ambiziosa“. Come si fa a passare dalla Corea alla Turchia in pochi mesi? “Studiando, come sempre. Il mio mestiere alla fine consiste in questo: studiare giocatori e squadre, capire come funziona una determinata realtà e provare a interpretarla“. LEGGI TUTTO

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    Filippo Maria Callipo: “Sacrificio e costanza, le chiavi del successo di Vibo”

    Di Agnese Valenti Continua il nostro ciclo di articoli dedicato alla pallavolo nelle regioni del Sud. Dopo l’intervista al professor Daniele Serapiglia della Società Italiana dello Sport, con cui abbiamo esplorato il divario esistente tra le diverse zone d’Italia in termini di tesserati e di società di alto livello, oggi andiamo invece alla scoperta di una realtà virtuosa e fondamentale per il volley maschile di alto livello nel Mezzogiorno: la Tonno Callipo Calabria Vibo Valentia. La formazione giallorossa, che quest’anno ha disputato una stagione entusiasmante, chiudendo la regular season al quinto posto in classifica e sfiorando una semifinale, è l’unica squadra meridionale in Superlega, un importante punto di riferimento per atleti e società del territorio con grandi progetti per il futuro. Abbiamo intervistato il vicepresidente del Club calabrese, Filippo Maria Callipo, ventiseienne e secondogenito del massimo dirigente Pippo Callipo, che già da due anni svolge con dedizione il ruolo dirigenziale dando prova di aver ereditato dalla famiglia l’amore per la sua terra e per la pallavolo. Foto Volley Tonno Callipo La vostra storia ha avuto inizio nel 1993 con la fusione tra le due realtà sportive locali, Pallavolo Vibo Marina e Fiamma Vibo Valentia. Sono passati quasi 28 anni da quella data: cosa è cambiato da quel giorno, e quale pensate sia stato il fattore principale che ha portato al successo la società e la squadra? “Quando mio padre decise di assecondare l’iniziativa di un gruppo di amici, sostenendo il loro progetto sportivo per una squadra militante in C2 con una piccola sponsorizzazione, per lui si trattava di un hobby a cui dedicarsi nel tempo libero. Man mano che la squadra compiva la sua scalata sono aumentati, naturalmente, anche impegno ed attenzione. Una volta raggiunta la Serie A2 ci si è resi conto che era necessario iniziare a strutturare un’articolata organizzazione di professionisti e quindi l’attività ha preso le sembianze di un lavoro a tutti gli effetti. Sacrificio e costanza sono state le coordinate che hanno guidato il nostro viaggio. Sono servite anche buone dosi di passione ed impegno“. Quali sono state le principali difficoltà che avete incontrato nel corso della vostra esperienza in Serie A? In particolare, è stato difficile “convincere” giocatori di alto livello a trasferirsi a Vibo, in un contesto diverso da quello del Centro-Nord? “La posizione geografica non ci ha mai avvantaggiato, considerato che la maggior parte delle squadre che disputano il campionato di Superlega appartengono a città del Centro-Nord. Più salivamo di serie e meno squadre del Sud trovavamo tra i nostri competitor. Purtroppo questo trend non è cambiato negli anni. Far arrivare i giocatori a Vibo è complicato, tant’è che cerchiamo sempre di selezionare atleti che credono con convinzione nel nostro progetto. I giocatori di alcune nazionalità sono più propensi a venire al Sud, sentendosi più affini al nostro ambiente e al nostro calore. È il caso dei brasiliani, che ormai da anni considerano la Calabria una seconda casa“. Tonno Callipo Calabria Volley La pallavolo al Sud ha una grande tradizione, ma fatica ad esprimere realtà di prima fascia, soprattutto nel settore femminile. Quali sono secondo voi le principali cause di questa situazione? “Le difficoltà sono soprattutto legate alle condizioni socio-economiche. Non ci sono molte società sportive che possano lavorare attivamente al reclutamento dei giovani atleti, che per questo non riescono, di conseguenza, a crescere tecnicamente nel loro territorio“. Molte volte durante la vostra storia siete stati costretti ad “emigrare” in palazzetti di altre città (l’ultima volta durante il campionato 2019-2020, quando vi siete temporaneamente trasferiti a Reggio Calabria). Come pensate si possa affrontare il problema della carenza di strutture, che è uno dei grandi disincentivi per lo sviluppo della pallavolo – e dello sport in generale – ad alto livello nel meridione? “Paradossalmente da noi, effettuando una mappatura del territorio, si evince che non c’è una carenza di strutture (solo nella provincia di Vibo se ne contano una decina). Semmai si può parlare di una sovrabbondanza di impianti sportivi, che però sono abbandonati e non fruibili dalle piccole società, che ne avrebbero necessità e che da sole non riescono a riqualificarli e gestirli“. L’inaugurazione del PalaMaiata Il vostro settore giovanile dà la possibilità a ragazze e ragazzi del Sud Italia di esprimere il proprio talento, ma purtroppo pochi di questi giocatori riescono a proseguire la propria carriera da alti livelli. Cosa pensate scoraggi i giovani meridionali o ostacoli la loro crescita? “Per una questione di mentalità i giovani del Sud preferiscono dedicarsi agli studi universitari intravedendo, in questa strada, maggiori sicurezze per il futuro, a discapito del tempo dedicato allo sport che diventa quindi marginale. Solo quelli più talentuosi, sentendosi da subito appagati, continuano la carriera pallavolistica“. Un tema su cui si dibatte costantemente, per quanto riguarda la Superlega, è lo spazio dato ai giocatori stranieri a scapito dei giovani italiani. Pensate che per la crescita del movimento sarebbe giusto dare maggiore spazio ai talenti del nostro paese? “Credo che per favorire la crescita del movimento sia necessario potenziare le basi del sistema, e cioè partire dal reclutamento dei settori giovanili, in modo tale che ci siano sempre più ragazzi italiani a praticare questo sport. Così aumenterebbero le possibilità che ad emergere siano i talenti nazionali, che in maniera del tutto naturale andrebbero a sottrarre posti agli stranieri“. Recentemente Vibo Valentia ha ospitato l’edizione 2021 del torneo WEVZA Under 17 maschile. Pensate che sia possibile ripetere l’esperienza con altre manifestazioni internazionali e che questo tipo di eventi possano costituire un volano utile per la crescita del territorio? “Eventi nazionali e internazionali di questo genere possono risvegliare e riaccendere l’interesse per la pallavolo in Calabria e nel Sud. Speriamo ce ne possano essere altri con la presenza del pubblico“. La squadra di Serie B / Foto Tonno Callipo Calabria Vibo Valentia Quest’anno, con il vostro quinto posto e una semifinale sfiorata, avete raccolto i frutti del vostro lavoro. In questa fantastica stagione è però mancata la spinta del calorosissimo pubblico giallorosso. Quanto conta per voi il sostegno dei tifosi e cosa si può fare per aumentare il loro coinvolgimento e il legame con il territorio, Covid permettendo? “Come in qualsiasi sport, i risultati incidono molto sull’umore della tifoseria. Quest’anno, con la stagione brillante che abbiamo disputato, avremmo sicuramente colorato il PalaMaiata di giallorosso in ogni partita, rendendo il pubblico un giocatore in più sul campo. Il nostro impegno sarà quello di promuovere dei momenti di incontro tra la squadra ed i tifosi, non solo in presenza ma anche attraverso l’uso dei social e del web, per riappropriarci di tutto il tempo perso“. La pallavolo cresce moltissimo e si sviluppa particolarmente nelle scuole. Come società operate anche all’interno degli istituti scolastici, per avvicinare le giovani ragazze e i giovani ragazzi alla pallavolo e alla Tonno Callipo? “Da sempre svolgiamo progetti scolastici su tutto il territorio calabrese, principalmente nella provincia di Vibo. Questa iniziativa ha avuto sempre grande successo e ottimi risvolti, per cui speriamo di poter riprendere prima possibile il nostro tour nelle scuole per dialogare da vicino con i giovani e avvicinarli al nostro mondo“. LEGGI TUTTO

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    Lo scudetto di François Salvagni: “Una vittoria che ripaga tanti sacrifici”

    Di Eugenio Peralta La Ligue A femminile francese è ormai da anni approdo d’elezione per gli allenatori italiani: Micelli, Schiavo, Orefice, fino allo scorso anno Marchesi. E poi François Salvagni, che la Francia ce l’ha nel nome e pochi giorni fa l’ha “conquistata” vincendo, con l’ASPTT Mulhouse, il primo scudetto della sua carriera e il secondo nella storia della società. Un successo ottenuto con due giornate d’anticipo, nell’unico campionato europeo che non prevedeva i play off, e sulla scorta di una stagione magica con 18 vittorie consecutive. Rendimento inaspettato per le stesse alsaziane, come racconta Salvagni ai nostri microfoni: “Non ce lo aspettavamo assolutamente, anche perché abbiamo iniziato molto male la stagione, giocando non bene a pallavolo e perdendo la Coppa del 2019-2020 (recuperata in settembre, n.d.r.). È stato un anno da costruire in corsa, e la cosa positiva è stata che siamo riusciti a vincere diverse partite anche quando giocavamo male: merito del gruppo, perché abbiamo 12-13 ottime giocatrici e ogni volta qualcuna ci metteva del suo. Ma fino a Natale ancora non riuscivamo a esprimere il nostro potenziale e in classifica eravamo tutti in gruppo“. E poi cos’è cambiato? “Be’, dopo tanti sacrifici e tanto lavoro la squadra ha cominciato a giocare molto bene. Secondo me le due ‘bolle’ di Champions League che abbiamo disputato ci hanno aiutato ad alzare molto il livello. In campionato abbiamo cambiato decisamente marcia e mostrato una qualità di gioco diversa. Nelle ultime 5 partite si è sentita un po’ la pressione: è stato molto importante vincere con il Voléro di Micelli per capire che potevamo farcela. Poi a Béziers poteva finire in qualsiasi modo, ma aggiudicarsi lo scontro diretto è stato il modo migliore per chiudere“. La pandemia di coronavirus ha messo a dura prova tutta la pallavolo mondiale, ma soprattutto quella francese. Come l’avete vissuta? “Abbiamo avuto la fortuna di poter continuare a giocare, ma per il resto è stata dura. Abbiamo perso il nostro team manager a dicembre, io personalmente ho vissuto la scomparsa di mia madre, e sono riuscito a vedere i miei figli solo una volta. Abbiamo fatto trasferte in un paese deserto, mangiando ognuno nella propria camera d’albergo e senza poterci concedere nulla nemmeno a casa, visto che l’Alsazia è stata la regione più colpita dalla prima ondata. Mi rendo conto che c’è chi ha sofferto molto o ha dovuto chiudere la propria attività, ma anche per noi è stato difficile. Anche per questo le ragazze hanno canalizzato tutte le loro energie per conquistare qualcosa di importante che ripagasse i tanti sacrifici“. Che campionato è quello francese? “Sorrido quando mi dicono che è un campionato di basso livello. Credo invece che il livello tecnico si sia alzato tantissimo: ci sono grandi allenatori, molti italiani, si gioca una bella pallavolo. L’ultimo campionato è stato di ottima qualità e lo dimostrano anche le prestazioni nostre e del Béziers in Europa. Certo non siamo ai livelli dell’Italia, ma nessuno lo è, neppure la Turchia… però dalla Francia sono partite tante giocatrici che poi si sono messe in mostra nei campionati internazionali, da Haak a Herbots“. A proposito, in Ligue A ci sono giocatrici in rampa di lancio per il campionato italiano? “Ce ne sono eccome, anzi diverse le vedrete già l’anno prossimo. Una di queste è la nostra schiacciatrice Hélena Cazaute, e per me il fatto che abbia conquistato un ingaggio in Serie A è un orgoglio e una medaglia personale, perché era stata lei a chiedermi di aiutarla a raggiungere questo obiettivo. Si parla molto anche di Ivana Vanjak, ma lei resterà con noi ancora un altro anno, proprio perché ha l’obiettivo di crescere ulteriormente per poi presentarsi in Italia da protagonista“. La Francia è l’unico paese europeo in cui i pallavolisti sono lavoratori professionisti, un tema di cui si parla molto anche in Italia. Cosa ne pensa? “In questa situazione ci ha aiutato tantissimo. Lo scorso anno, quando è stata sospesa l’attività, abbiamo ricevuto la cassa integrazione all’85% dallo Stato, oltre ai contributi pensionistici e a tutte le agevolazioni del caso. Voglio però essere ben chiaro: se si vuole il professionismo bisogna che tutte le componenti, dai giocatori ai procuratori, siano disposte a mettersi le mani in tasca. Perché la riforma, se ci sarà, comporterà un costo economico e probabilmente anche tecnico: le giocatrici guadagneranno qualcosa in meno e qualcuna sceglierà di andare altrove. Ma io mi auguro che accada, perché avere più solidità è l’unico modo per crescere“. LEGGI TUTTO