Di Agnese Valenti Prosegue il nostro viaggio nella pallavolo al Sud: un ciclo di interviste ad esperti, dirigenti, allenatori e giocatori per conoscere meglio la realtà del nostro sport nelle regioni del Mezzogiorno. Il protagonista dell’intervista di oggi è Carlo Parisi, allenatore di lunga esperienza nato a Catanzaro e cresciuto sportivamente a Messina, prima di diventare uno dei tecnici più apprezzati a livello italiano e internazionale con un curriculum ricco di successi. A lui abbiamo chiesto di raccontare la sua esperienza e di esplorare prospettive, limiti e potenzialità del pallavolo alle latitudini più meridionali dello Stivale. Dopo 8 stagioni a Messina (2 da vice allenatore per poi passare a head coach), la sua carriera si è sviluppata spostandosi sempre più a Nord: a Roma, a Chieri, per arrivare alla sua esperienza finora più longeva (11 stagioni) a Busto Arsizio. Lei crede che se, ipoteticamente, avesse scelto o le avessero proposto di rimanere in una società del Sud, sarebbe riuscito a raggiungere gli stessi obiettivi e risultati? “È una domanda molto difficile, ma voglio essere schietto: non credo. Nel momento in cui sono andato via da Messina, ho avuto la possibilità di spostarmi a Roma (sempre in A2), dove sono stato tre anni. La situazione in Sicilia stava evolvendo in senso negativo: ci sono stati gli anni d’oro – sono parte di quella storia di Messina – con la storica promozione in A1, ma sempre accompagnata da una situazione molto difficile da gestire, soprattutto dal punto di vista economico. Non credo che il mio percorso di Busto Arsizio si sarebbe potuto sviluppare allo stesso modo a Messina. Lo dico con grande rammarico: da quando sono andato via fino ad oggi, ciò che è successo parla chiaro. Quelli sono stati anni a cui non è stato dato un seguito“. Vede come una scelta forzata quella di lasciare il Sud per cercare di fare carriera e portare avanti un progetto più ampio? “Questo è un discorso abbastanza complesso: potrei rispondere allo stesso modo con un sì, ma anche con un no. La situazione è abbastanza complicata al Sud, basta vedere la geografia pallavolistica. Sono andato via ormai tantissimi anni fa e pur mantenendo i contatti con coloro con cui ho vissuto i miei anni a Messina, sia ciò che loro mi raccontano e sia ciò che leggo mi dice che – purtroppo – se qualcuno vuole proseguire questa carriera (già complicata di suo), ci vogliono una passione smisurata e una grande voglia di confrontarsi con gli altri. Una volta che sono andato via da Messina, inevitabilmente la mia vita si è spostata al Nord, anche per motivi privati: la mia compagna Marianna è di Novara“. Foto Facebook Vbc èpiù Casalmaggiore Cosa ne pensa della presenza limitata di società di pallavolo meridionali ad alti livelli e di giocatrici del Sud in formazioni del Nord e anche in nazionale, nonostante che questa attività sportiva sia ampiamente diffusa al meridione? “Quello che secondo me manca al Sud è una cultura e una capacità dirigenziale. A volte c’è un po’ di improvvisazione, a volte mancano le risorse. So che ci sono ovviamente ottimi allenatori anche al Sud, che c’è un movimento pallavolistico che purtroppo non riesce mai ad emergere, ma non si riesce mai a costruire qualcosa di duraturo. Tutto si scioglie come la prima neve al sole. Lavorare sulla crescita dei giocatori e delle giocatrici e sull’attività giovanile è un impegno e un investimento che richiede risorse. A volte è importante avere una società che trascina, come punto di riferimento, ma spesso dietro non c’è un lavoro che possa dare continuità, se eventualmente ci dovessero essere delle difficoltà. Ci sono delle realtà nel Meridione che si dedicano alla realtà giovanile, ma ci vogliono molti investimenti: le attività giovanili costano quasi più di una squadra che milita in una categoria superiore. Ci vogliono appassionati e gente che ha voglia di lavorare: i risultati non si ottengono nell’arco di poco tempo, ci vogliono molti anni. L’attività giovanile è quasi una missione: c’è bisogno che sia un obiettivo principale“. Quali sono i principali ostacoli che si incontrano al Sud dal punto di vista economico? “A Messina noi eravamo sostenuti dagli sponsor, indubbiamente fondamentali, ma dietro c’erano i ‘famosi’ contributi regionali da cui siamo dipesi per anni e anni. Oggi si vede una situazione che non è molto diversa da quella che lasciai io: ciò non vuol dire che non ci siano gli appassionati, ma il problema è che a volte si guarda troppo nel proprio orticello e si tende a tenerselo stretto. Non c’è stata una vera collaborazione tra società nella pratica. Non parliamo poi del disastro che ha provocato la pandemia: ad una situazione già complicata si è aggiunta la devastazione creata da attività sospese, scuole chiuse… al momento la situazione è molto difficile. La mia sensazione è che al Nord ci siano maggiori possibilità dal punto di vista dell’impiantistica e del materiale umano. Per quanto riguarda le sovvenzioni si apre un altro capitolo: lo sport ha sempre risentito parecchio di tutti i tagli che sono stati fatti alla spesa pubblica. Viviamo in un’epoca in cui si fanno tagli persino alla sanità, e sappiamo benissimo i risultati che ci sono stati. Si può anche entrare nel campo della qualità delle persone che ci governano, ma è un discorso molto ampio“. Foto Rubin/LVF Il problema, però, sembra non essere solo economico… “Quello che mi preme dire è che ci vogliono persone che abbiano passione e un’idea ben chiara in testa: la passione non è una cosa che alla prima difficoltà o al primo non-risultato crolla. La passione è quell’energia che ti porta ad andare sempre avanti, a guardare fisso l’obiettivo da raggiungere e cercare di creare le condizioni che ti portano a raggiungere quel determinato obiettivo. Ci sono tante realtà che lavorano nel giovanile, e che ormai sono ben conosciute in Italia. Tante altre società stanno cercando di stare in piedi, stanno cercando di rimanere a galla, e sono queste società che c’è bisogno di incentivare e stimolare a poter sviluppare ancora di più questa passione ed energia. La mia sensazione è questa: vedo che ci si arrende con troppa facilità, che quello che si sbandiera come ‘grande motivazione’ sparisce con eccessiva semplicità“. Ci fa qualche esempio concreto? “In Sicilia abbiamo Marsala, che è in A2 Femminile, mentre nel maschile ci sono meno realtà importanti. Un bacino come quello di Catania, che è sempre stata una città che ha dato talenti in Italia e che ha sempre avuto uno sviluppo della pallavolo altissimo, vive delle difficoltà ma si continua a lavorare. Il problema è che bisogna esserci dentro per capire i veri problemi. In Calabria c’è Soverato che, come sappiamo tutti, ogni anno riesce a finanziare un campionato di A2, ma non sembra che dietro ci sia qualcosa di concreto e duraturo, a parte gli sforzi del presidente Antonio Matozzo. Bisogna capire cosa realmente si vuole. Una realtà come Vibo Valentia è già diversa: da tanti anni è lì, quest’anno in particolare ha fatto molto bene. Questo può portare visibilità, può portare sponsorizzazioni, può portare tanta gente che si avvicina, però dietro ci deve essere un progetto solido che supporti tutto il resto. Un progetto duraturo con le idee molto chiare. Io penso che anche a livello dirigenziale bisognerebbe fare un percorso di formazione, come facciamo noi allenatori. Quando ero più giovane prendevo la macchina e andavo dappertutto: da Messina ero anche arrivato a Pordenone per seguire gli allenamenti della nazionale juniores. Questa è la voglia di confrontarsi e aggiornarsi. A livello dirigenziale non si fa un lavoro abbastanza qualificato per sapere di cosa veramente si parla: non è solamente la sponsorizzazione, piuttosto che il contributo pubblico, è tutto una serie di componenti che rendono una società strutturata, solida e con delle idee ben chiare“. Un ostacolo allo sviluppo del volley al Sud è la carenza di strutture, lei in questo senso che esperienza ha avuto? “Nel Sud la carenza di impianti è sempre stato un enorme problema. Basta guardare dove gioca la prima squadra di Messina, una formazione di B1 (Akademia Sant’Anna), con cui io ho vissuto la mia promozione in A1, che ha dovuto sospendere gli allenamenti perché pioveva dentro la struttura. Pur vivendo lontano da Messina da tanti anni, so che purtroppo lì la situazione è complicata. Quest’anno non fa testo: con il Covid ci sono state delle difficoltà che hanno coinvolto tutta Italia. Campionati sospesi, modificati, squadre che hanno rinunciato a fare il campionato con tante atlete e tanti atleti che sono rimasti a casa. Mi ricordo che quando a Messina sono entrato nel palazzetto, c’era la scuola, c’era il corso delle ‘mamme’ che andavano a fare attività (ride, n.d.r.)… poi piano piano, con una società che si è strutturata, che ha lavorato anche sul territorio, siano riusciti a guadagnarci i nostri spazi. Soprattutto grazie alla società che si è avvalsa di persone volenterose, di un allenatore con una lunga esperienza in serie A, che ha dato tutte le informazioni necessarie per collaudarsi, per superare i gineprai della burocrazia, per cercare di trovare degli spazi a gomitate, per cercare di far crescere una squadra che negli anni ha poi raggiunto una promozione. Poi però la squadra non è stata in grado di mantenersi, perché non c‘era dietro la possibilità economica per poter reggere una situazione del genere. Oggi le persone che conosco non mi dicono cose molto diverse. Ci sono sempre delle realtà diverse, delle situazioni differenti, qualcosa che emerge c’è sempre. Però i risultati si vedono col tempo e con la pazienza“. Foto CVF Lei è stato CT della nazionale ceca per tre anni: com’è stata la sua esperienza all’estero e quali differenze ha trovato con il sistema italiano? “La mia esperienza con la Repubblica Ceca è stata molto positiva. È ovvio che essendo una nazionale hai meno problemi rispetto a quelli che una società di club potrebbe affrontare. Ci allenavamo d’estate, quando molte delle squadre erano ferme, però quello che ho incontrato è un paese che forse è rimasto ancorato a vecchie idee e non si è abbastanza evoluto. Parlo ovviamente del femminile: basta guardare il campionato ceco al momento. Un campionato in cui la squadra di vertice farebbe fatica in una nostra A2. Il livello è ‘così-così’: gli allenatori stessi non sono molto contenti di dover accettare la presenza di un tecnico straniero. In tre anni di lavoro avrò visto, per esagerare, una decina di allenatori, nonostante avessimo girato il paese in lungo e largo. È stata comunque un’esperienza positiva: ci si confronta con realtà, culture e abitudini diverse e questo non può che essere un arricchimento. Da un punto di vista pallavolistico, magari mi sarei aspettato qualche cosa in più. Ho avuto anche le mie soddisfazioni: ho fatto esordire in nazionale una ragazzina di 16 anni, azzardo che alla fine ha avuto i suoi aspetti positivi. Ho conosciuto tante atlete che anche in questi anni ho incrociato. A livello di strutture e organizzazione, qualcosina da dire ci sarebbe“. Ha anche allenato due club esteri, in Azerbaijan e Francia. “L’Azerbaijan è una realtà su cui c’è poco da dire. C’erano squadre che si facevano la guerra tra di loro: molte squadre erano legate ai ministeri o alle università. Viaggiavano quantitativi di soldi industriali, e si cercava di prendere i giocatori migliori per portarli lì. Dietro non c’era nulla: sia allora che ora. Una volta che sono finiti i soldi, il campionato azero non esiste più. La Francia è un pochino come da noi. Tolte alcune squadre della serie A (Mulhouse, Cannes, Béziers, Le Cannet), siamo andati a giocare in campi dove lo stesso allenatore ci montava la rete per gli allenamenti della mattina, oppure squadre che in trasferta si presentavano solo con l’allenatore in panchina. Ci sono però squadre che sono molto ben strutturate, c’è anche un’assistenza sanitaria, qualcosa di molto diverso da noi. È gestita meglio e c‘è più tutela, dato che atleti e allenatori sono professionisti. Nella serie A italiana abbiamo visto un po’ tutto. C’è anche un’altra differenza: l’allenatore tende ad essere sia allenatore che direttore sportivo. Si appoggiano molto a quello che fa e dice il tecnico. A differenza di ciò che succede da noi, in cui ci sono realtà in cui l’allenatore ha un peso specifico, ma anche altre situazioni in cui le società si muovono in maniera diversa. Lì quasi tutto dipende dall’allenatore, è lui che si deve muovere per costruire la squadra, finché la società lo può supportare. Ci sono anche altri fattori: noi ad esempio abbiamo fatto anche un corso per insegnare. Siamo a tutti gli effetti professori di scuola. C’è una visione diversa rispetto all’Italia. Poi ovviamente ci sono anche i contro, ma ci sono molti vantaggi“. LE PUNTATE PRECEDENTI:1. La questione meridionale nel volley: perché manca il Sud ad alti livelli?2. Filippo Maria Callipo: “Sacrificio e costanza, le chiavi del successo di Vibo” LEGGI TUTTO