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    È ll talento che logora il talento?

    Gianluigi Quinzi nella foto

    Chi frequenta i circoli di tennis, o si diverte nel cercare di individuare il futuro astro nascente della racchetta, sicuramente si sarà imbattuto/a almeno una volta in una discussione su chi sia il giocatore o la giocatrice con più talento.Ma cosa è il talento, e perché di solito è ritenuto l’ingrediente più importante per il successo nello sport?
    Il Vocabolario Treccani descrive il talento come “ingegno, predisposizione, capacità e doti intellettuali rilevanti, specialmente in quanto naturali e intese a particolari attività”.Nel tennis, dietro l’idea del talento, si potrebbe dunque nascondere la convinzione che un giocatore o una giocatrice posseggano la predisposizione o le doti naturali per avere successo. Ma esiste davvero questa correlazione?
    Quando Gianluigi Quinzi vinse Wimbledon juniores nel 2013 furono in molti a parlare di predestinato. Otto anni dopo si ritirò dal circuito pro con un best ranking di 142 al mondo.In una statistica pubblicata il 14 giugno 2019 su HiddenGameOfTennis, veniva indicato come negli ultimi trent’anni, solo cinque giocatori che avevano vinto uno Slam juniores si sarebbero poi ripetuti nel circuito maggiore .Addirittura meno della metà dei campioni Slam juniores avrebbe vinto anche un solo torneo nel circuito maggiore.Sembra dunque che il percorso di Quinzi non fu un’anomalia, ma un evento statisticamente “prevedibile”.
    Verrebbe dunque da chiedersi il perché, ammettendo l’esistenza di una predisposizione “naturale” a uno sport come il tennis, la maggior parte dei giocatori o delle giocatrici in grado di raggiungere grandi risultati nel circuito juniores, tendano a non replicare tali conquiste nel circuito maggiore?Da cosa può dipendere questa mancanza di continuità?Dovremmo forse persuaderci che il concetto stesso di talento non sia altro che un semplice pregiudizio, e quindi un’ opinione concepita sulla base di convinzioni personali poco attendibili?O magari pensare che i giocatori o le giocatrici talentuose siano solo coloro che hanno avuto uno sviluppo fisico anticipato, in grado di fornire un vantaggio iniziale che però tende a disperdersi con la crescita? Probabilmente entrambe le supposizioni possono essere verosimili, ma c’è un altro aspetto che spesso non viene considerato, e che può darci un’ulteriore chiave di lettura: è altresì possibile che la stessa etichetta di talento possa avere ripercussioni negative su coloro che ne portano il “peso”, deviandone in qualche modo il percorso di crescita?
    In uno studio di Mueller e Dweck(1998), a un gruppo di persone vennero somministrati alcuni compiti di logica. Successivamente, una parte dei soggetti che avevano completato con successo il compito vennero elogiati per l’intelligenza, mentre un secondo gruppo, che rappresentava il gruppo di controllo, venne invece elogiato per l’impegno profuso.Sorprendentemente, chi ricevette elogi per l’intelligenza, rifiutò con maggiore frequenza la richiesta di eseguire un secondo compito, per evitare il rischio che il primo giudizio venisse disconfermato.Al contrario, gli individui che avevano ricevuto complimenti per il loro impegno al compito, risultavano più propensi ad affrontare anche una seconda prova.Successivamente, viste le reazioni, gli sperimentatori proposero volutamente dei quiz di logica molto più complessi per indurre tutti i partecipanti al fallimento.Si notò che gli appartenenti al primo gruppo, cioè chi aveva ricevuto i complimenti per la sua intelligenza, di fronte alla mancata risoluzione del compito, tendeva a percepirsi meno intelligente rispetto al gruppo di controllo, che come detto aveva ricevuto i complimenti per gli sforzi messi in atto durante la prova. Il primo gruppo presentava inoltre meno piacere nello svolgere il compito.In ultimo, chi aveva ricevuto elogi per l’intelligenza, mostrava una predilezione per gli esercizi più semplici, preferendo la possibilità di potersi mostrare nuovamente capace; al contrario, chi aveva ricevuto elogi per lo sforzo, era maggiorente attratto dai compiti più complessi, perché rappresentavano un nuovo stimolo ad imparare.In sintesi , chi era stato etichettato come intelligente, tendeva a considerarsi, in seguito a un “fallimento”, non sufficientemente dotato, mettendo in discussione la propria intelligenza, con conseguente perdita di interesse e motivazione verso il compito, rispetto al gruppo di controllo.
    Se trasferiamo i risultati di questo esperimento in ambito sportivo e riprendiamo la nostra ipotesi iniziale, potremmo quindi supporre che anche l’etichetta di “talento” possa predisporre un giocatore o una giocatrice a sviluppare una mentalità rigida, che lo/a porti a essere meno incline a tollerare errori o sbavature, a digerire le sconfitte, e a non sviluppare la propensione al sacrificio, caratteristica necessaria per avere un successo duraturo.L’atleta considerato/a talentuoso/a, di conseguenza, potrebbe valutare erroneamente la fatica o le difficoltà nel raggiungere gli obiettivi prefissati, perché verrebbero percepite come elementi in contrapposizione con la concezione stessa di “avere talento” -che quindi rischierebbe di essere messa in discussione- amplificando il senso di frustrazione, la perdita di autostima e di motivazione.In altre parole, per chi è stato sempre considerato un talento, il concetto stesso di sforzarsi per colmare una lacuna potrebbe essere vissuto negativamente, determinando una progressiva perdita di interesse, impegno e divertimento nella pratica sportiva man mano che la fiducia in sé diminuisce.Al contrario, il giocatore o la giocatrice che hanno sviluppato una mentalità dedita al sacrificio, potrebbero considerare una situazione di difficoltà come parte del processo di crescita, cogliendo nelle battute d’arresto un ulteriore stimolo per migliorare.
    Per concludere, sottolineare e rinforzare caratteristiche come l’impegno e la costanza, valorizzando lo sforzo, senza focalizzarsi sul possedere o meno una caratteristica inalterabile come il talento, potrebbe spingere l’individuo ad avere un approccio propositivo di fronte alle nuove sfide, migliorando la capacità di gestire la frustrazione di fronte alle difficoltà, fino al raggiungimento del suo pieno potenziale.
    Buon tennis.Marco CaocciPsicologo LEGGI TUTTO

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    Il mito della freddezza

    L’indimenticata Jana Novotna nella foto

    Quando guardiamo una partita di tennis, e il giocatore o la giocatrice per cui facciamo il tifo non chiude a suo favore un punto delicato, può venire quasi naturale cercare le cause che l’hanno portato/a a perdere il punto nel controllo delle emozioni, il cosiddetto “braccino”, e richiamare alla mente atleti o atlete che nelle situazioni topiche di un match davano invece la sensazione di avere tutto sotto controllo, anche negli scambi più complessi, o addirittura di sentirsi ancora più a loro agio con quel tipo di tensione.
    E questo potrebbe portarci a pensare al mito della freddezza, dell’atleta emotivamente glaciale e imperturbabile. Se paragoniamo tra loro giocatori come Fognini, Kyrgios o Nadal, ci troviamo di fronte stili di gestione delle emozioni differenti. Perdere un punto in una fase delicata di un match, mentalmente parlando, può essere paragonato allo stare nel bel mezzo di un ingorgo che ci farà arrivare in ritardo a lavoro. Come reagireste in questa situazione? Contro voi stessi, contro gli altri, o manterreste la lucidità? E cosa differenzia queste diverse reazioni?Possiamo provare a cercare la risposta a questo quesito nel concetto di autoefficacia, che può essere descritto come il senso di fiducia nelle proprie abilità, tale da fornirci la percezione di poter affrontare un determinato compito con successo.
    Tuttavia, se una determinata situazione viene codificata come pericolosa, significa che una zona del nostro cervello, l’amigdala, il centro di controllo delle nostre emozioni, ha riconosciuto, nel confronto tra l’esperienza corrente e quelle passate, un segnale per il quale è meglio metterci in guardia, e per fare questo ci offre tre soluzioni immediate e biologicamente adattive: attacco, fuga, freezing. Quando allora osserviamo giocatori come Paire, Fognini, o Kyrgios perdere il controllo durante un momento delicato del match, probabilmente ciò che sta accadendo è che le risorse disponibili per un problem solving più “raffinato” non siano più sufficienti per evitare l’attivazione del nostro sistema limbico: la reazione “ruba” il posto all’azione, il senso di pericolo supera la percezione di autoefficacia, e ci si ritrova ostaggi del cosiddetto sequestro emotivo. Quello che nel trading ti può far perdere soldi, nella vita può logorare le relazioni, nel tennis può far perdere le partite.Quando il carico cognitivo è tale da rendere inefficace la gestione della frustrazione, con reazioni a volte rabbiose contro sé stessi o contro gli altri, le cause possono essere molteplici, e non sempre vanno ricercate all’interno di un singolo incontro, o un singolo punto. Ad esempio, possiamo avere ridotte risorse cognitive a disposizione perché abbiamo dormito poco e male, perché abbiamo litigato con la nostra compagna o il nostro compagno, perché non vinciamo una partita da tanto e tendiamo a pensare eccessivamente durante tutto l’incontro, o semplicemente perché sentiamo di non esserci allenati abbastanza.È come se la memoria RAM di un telefonino fosse sovraccarica per l’eccessivo numero di applicazioni aperte in contemporanea.
    In sintesi, quella che chiamiamo in gergo freddezza non è altro che la capacità del tennista e della tennista di far fronte agli eventi stressanti di un match attraverso risposte cognitive e di gestione emotiva adeguate alla situazione.
    Non tutti gli atleti hanno imparato ad affrontare questo tipo di eventi in autonomia nel migliore dei modi, e molto può dipendere dal mix di variabili biologico-ambientali che hanno influenzato la crescita di quel singolo individuo. Tuttavia, pur trovandoci di fronte a comportamenti o attitudini non irreversibili o prive di margini di miglioramento, la falsa credenza che lo psicologo si occupi esclusivamente di “disturbi mentali” ha per lungo tempo tenuto lontano questa figura dal mondo dello sport, facendoci percepire come normale la frustrazione che si manifesta durante un match, con i suoi monologhi infiniti, le racchette distrutte o le accuse all’avversario, all’arbitro o al tifo troppo rumoroso, come se fossero aspetti del gioco sul quale si può fare poco o niente, perché semplicemente quel giocatore è troppo emotivo, troppo impulsivo, o senza carattere.Per questo la notizia di Lorenzo Musetti, che avrebbe potuto scegliere di non condividere pubblicamente, di richiedere il supporto di uno psicologo, assume particolare significato, in quanto potrà dare coraggio a tutti quegli atleti, che ancora oggi, hanno paura di appoggiarsi a un professionista, per timore di essere a sproposito etichettati come deboli, strani, o senza speranza, e far comprendere a chi ancora nutre dei dubbi, che l’intervento dello psicologo nello sport è possibile, utile, e forse necessario.

    Dott. Marco Caocci LEGGI TUTTO

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    Nella mente di Novak Djokovic

    Era il lontano 1969 quando Rod Laver riuscì a conquistare tutti i 4 tornei del Grande Slam in un’unica annata. Sono passati più di 50 anni da tale storica impresa, e ancora nessuno in campo maschile è riuscito ad eguagliare questo risultato. Novak Djokovic si è trovato a un passo dal traguardo, ma qualcosa, grazie […] LEGGI TUTTO

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    La sfida di Camila

    Camila Giorgi nella foto

    Quando penso al gioco di Camila Giorgi spesso mi torna in mente il famoso slogan di una pubblicità di pneumatici: la potenza è nulla senza controllo.
    E osservando le partite della nostra tennista, non di rado accadeva che si percepisse la sensazione di un braccio di ferro esasperato con l’avversaria che irrimediabilmente portava a una serie di errori gratuiti e alla conseguente sconfitta.E così quel grande potenziale tecnico-atletico si disperdeva in risultati non all’altezza.Fino alla straordinaria vittoria del torneo di Montreal.Come ha sottolineato anche Marco Mazzoni nel suo articolo, la domanda che un po’ tutti ci facciamo è se questa vittoria rappresenti un episodio isolato o l’inizio di un periodo nuovo per Camila. Proviamo a capirlo da alcuni segnali.Chi ha seguito il match tra la Giorgi e la Sabalenka nei quarti di finale a Eastbourne, avrà notato una inconsueta tenuta mentale della giocatrice italiana soprattutto nei momenti salienti dell’incontro.Per chi non lo ricorda, dopo un primo set tiratissimo conquistato al tie-break, la tennista italiana subì un secco 60. Nel set decisivo, dopo aver conquistato il break nel game di apertura, arrivarono due break consecutivi che la portarono sotto 3-1. Poteva essere il colpo del ko, ma sorprendentemente, dopo una grande lotta e continui capovolgimenti, porta a casa l’ultimo set per 64. Dal mio punto di vista, questo match potrebbe rappresentare un primo segnale di cambiamento, soprattutto nella percezione di sé della giocatrice e nella capacità di gestire i momenti importanti. E che si consoliderà successivamente nelle recenti olimpiadi svolte a Tokyo.
    In un precedente articolo, ho parlato della flessibilità cognitiva e di come un cambio di contesto possa determinare l’abbandono di schemi routinari consolidati e favorirne la sperimentazione di nuovi.Se pensiamo al percorso della Giorgi, durante queste ultime olimpiadi, potrebbe essere avvenuto proprio questo: cambia la competizione, cambia la guida tecnica, e di conseguenza cambia il modo di giocare. Ed emerge la possibilità per l’atleta di poter lasciare da parte i propri condizionamenti per sperimentare soluzioni tattiche diverse. Se pensiamo alla vittoria del master 1000 canadese, sarà balzato agli occhi di tanti la capacità nuova di Camila di non forzare tutti i punti, di non giocare a tutto braccio sempre e comunque. Non sappiamo se questo nuovo schema, che consiste nell’inibire la tendenza a concludere lo scambio alla prima occasione, e che probabilmente ha contribuito alla vittoria del prestigioso master, si consoliderà ulteriormente. Dipenderà da diversi fattori, come ad esempio il rinforzo positivo derivante da ulteriori successi. Qualcuno obietterà che si è trattato solo di coincidenze fortunate, che la differenza l’ha fatta il servizio, o che non si ripeterà più un evento del genere. Staremo a vedere, intanto godiamoci questo successo.
    Dott. Marco CaocciPsicologo LEGGI TUTTO

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    Naomi Osaka e Jannik Sinner, il valore delle scelte

    Qualche giorno fa, forse condizionato dal gran parlare che si è fatto di Naomi Osaka in questo periodo, ho deciso di guardare la miniserie documentaria che ripercorre alcuni eventi della vita e della carriera della tennista nipponica, e con un po’ di sorpresa, mi sono ritrovato a riflettere sui parallelismi che potrebbero riguardare, con le […] LEGGI TUTTO