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“Hip Resurfacing”, il segreto di un Murray rinato

Probabilmente a Sir Andrew Barron Murray, meglio conosciuto come Andy Murray, forse non riuscirà mai quella che è da considerarsi l’impresa più difficile della sua vita, risultare anche simpatico. Ma chissenefrega. Intanto bisognerebbe conoscerlo bene e d’appresso per poter formulare un giudizio che non sia frutto soltanto da quanto ti irradia uno schermo o ciò che un match visto in un giorno qualunque può dirti.
Sì va bene, quello che si vede proiettato in campo nei momenti clou d’un incontro è lo specchio degli aspetti più reconditi dell’animo, e quello che Murray comunica col suo vociare verso il suo angolo autorizza a immaginarlo non proprio come l’essere più simpatico dell’universo.
Ma di nuovo, chissenefrega.

A quasi 36 anni – li compirà il prossimo 15 maggio – quella che oggi vediamo in campo è una delle migliori edizioni mai esibite dall’ex numero 1 al mondo. Chi oggi vediamo correre in campo, dare una copertura del court come raramente abbiamo visto, non sembra ricollegabile all’uomo che nel gennaio del ’19, agli Australian Open, comunicava in lacrime che avrebbe dovuto sottoporsi a un nuovo intervento all’anca per provare a staccarsi da dolori sempre più atroci che, ipse dixit, gli impedivano di “infilarsi anche i calzini”.

Chi ha la fortuna di non aver mai provato cosa comporti il problema degenerativo dell’anca, non può capire. Il dolore è continuo e si fa più feroce persino a letto e non fa differenza la posizione che provi ad assumere. Un dramma tentare di infilarsi in auto e poi sfilarsi dalla stessa, visto che abduzione e adduzione dell’arto sofferente regalano dapprima fitte lancinanti per poi sconfinare in un dolore che pare sempiterno. Cominci a conoscere che razza di carogna sia un muscolo che prima manco sapevi d’avere e che ora è un inopportuno compagno di viaggio e che ha nome ileopsoas. Prima di arrivare all’inevitabile intervento, passi attraverso una trafila interminabile di esami, valutazioni e infiltrazioni di acido ialuronico ad alta densità molecolare per cercare di allontanare il giorno in cui finirai sotto i ferri, ma che è ineluttabile.

Anche Andy deve, più o meno, aver vissuto le stesse cose, con le stessa identica progressione di dolore, più o meno lo stesso “turismo medico” prima di arrendersi all’ineluttabilità degli eventi. Solo che lui non è, non era una persona normale. Sembra un secolo fa, ma quando Murray prese a stare male era qualcosa come il n° 1 al mondo e faceva parte dei Fab Four in modo stabile, quelli che, con rare eccezioni, si annettevano ogni edizione degli Slam e/o Master 1.000 che fosse, quelli che concedevano briciole a tutti gli altri.

All’inizio del 2018 Murray si sottopose a Brisbane a un primo intervento chirurgico in artroscopia che sulle prime sembrò aver risolto parecchi problemi, ma nel giro di poco rigettò nel più nero sconforto Andy, ricollegandolo con quei terribili dolori che pensava d’essersi messo alle spalle. Anzi, prese ad andare sempre peggio, tanto da indurlo ad annunciare un possibile, un più che probabile ritiro dall’attività agonistica nel gennaio del 2019. Agli Australian Open lottò per quattro ore contro Bautista Agut ma andava sempre peggio. Dopo averne ascoltate tante, diede retta a Bob Bryan che gli consigliò un intervento chiamato “Hip Resurfacing”, un rivestimento dell’anca consistente in due lamine di acciaio emisferiche inserite per andare a ricoprire l’articolazione. Il professor Derek McMinn, il primo chirurgo ortopedico che ha tentato questo tipo d’intervento e che ha poi operato Murray a Londra, sostiene che il problema degenerativo dell’anca, nella maggior parte dei casi, sia un problema dettato dall’usura della cartilagine e non l’osso. Per cui, meglio intervenire con un rivestimento e la sostituzione della cartilagine, sia sul versante acetabolare che femorale, restituendo una nuova superficie di carico e quindi praticamente una nuova anca.

L’anca destra di Murray non è stata ricostruita, né sostituita e neppure sono state inserite placche di metallo. L’articolazione del campione scozzese è stata rivestita, e quindi rinforzata, per ridurre l’attrito fra femore e bacino.

Certo che quando il professor McMinn gli disse che aveva il 90% di probabilità di tornare a competere ai suoi livelli, ci sarà voluto del bello e del buono perché Andy non facesse una decisa tara e provasse davvero a crederci. Dopo tutto quello che aveva passato…
Ma “under armour” c’era ancora il cuore del campione indomito che abbiamo imparato a conoscere, e Murray ha provato a ripartire. Dopo lunga, opportuna riabilitazione, deve essere stato durissimo, stoico sopportare certi carichi di lavoro per provare a tornare definitivamente, ricominciando praticamente da zero. Il ritorno però non è stato per nulla agevole, visto che i mesi sono stati costellati, sì dalla vittoria nel torneo di Anversa del ’19 e da qualche bella prestazione ma, qua e là, da varie e continue noie muscolari: prima a dolergli l’ileopsoas della gamba operata, poi l’inguine sinistro, infine un quadricipite a impedirgli di difendere a Tokyo il titolo olimpico.

Ma le forze sottili l’hanno sempre spinto ad andare oltre, a cercare il tempo perduto. Vederlo camminare dopo un match ti lascia intuire che le sofferenze possano essere sempre dietro l’angolo, ma ciò che lo anima è il desiderio puro di continuare a giocarsela. Con tutti.
Il 2023 sembra essersi aperto con il destino in grado di tornare a sorridergli, cavandolo d’impaccio anche quando la situazione sembra disperata. Murray, del quale fino a qualche mese fa era più facile contare i periodi di pausa che quelli d’attività, ha cominciato a inanellare vittorie da vero highlander.

Sfruttiamo una ricerca che qualche giorno fa, proprio su questo sito ha prodotto Marco Mazzoni per meglio capire.

Le vittorie monstre di Andy sono cominciate ad Adelaide, quando ha battuto Korda dopo due ore di lotta, per poi continuare coi cinque set giocati e vinti contro Berrettini agli Australian Open salvando un match point, quindi col turno successivo nel quale ha sconfitto Kokkinakis risalendo da due set sotto. Poi si è arrivati a Doha dove dapprima s’è avvalso della compartecipazione di Sonego, portando a casa un incontro dove s’è ritrovato ad avere altre tre palle-partita contro, per poi piegare Zverev dopo 3 ore e 30 di gara, quindi ha scavalcato l’interessante francesino Muller, prima di domare un Jiri Lehecka “on fire”, salvando altri cinque match point.
Vabbè, uno potrebbe dire che ha incontrato Berrettini in un momento un po’ così, che Kokkinakis non è proprio un genio, che Sonego s’è suicidato, che Zverev è poco più che al rientro e Lehecka ha proseguito sulla scia di Sonego e che se solo Matteo, Lori e Jiri avessero convertito una sola delle palle- partita avute, staremmo qui a raccontare un altro film. Ma è una mezza verità, visto che la storia non è fatta dai “se”.
Del resto, chi ha visto la finale di Doha, giocata e persa contro Medvedev, ha potuto constatare che intensità abbia messo in campo Murray e quanto abbia meritato d’essere lì.

Il Medvedev attuale può batterlo solo un “giocatore-chirurgo” che sappia togliere il tempo al russo, abbia nel servizio un’arma davvero letale capace di pescare angoli estremi e che sappia presentarsi a rete in modo perentorio. Battere Daniil tenendo lo scambio è cosa difficile e riesce solo al miglior Djokovic, ma pure lui soffrendo e ingarbugliando le trame, visto come Medvedev riesce a non perdere mai campo, anche quando va a rispondere in tribuna.

Se si fosse fatta un’analisi del match della finale di Doha sarebbe stato interessante vedere quanti sono stati i “15” giocati oltre l’ottavo scambio: così a spanne, veramente tanti. Segno d’una condizione atletica veramente eccellente di Murray, che è parso migliorato in ogni settore di gioco.
Quanto durerà? Difficile dirlo. Quando raggiunge l’asciugamano dopo la disputa d’un punto, la postura in avanti è accompagnata da quella che sembra una leggera zoppia. Ma poi il match riprende e non c’è più traccia d’incertezza. Sembra divertirsi come noi, e più gli scambi durano, più è chiamato a prodezze e più si diverte. Si diverte così tanto che al momento della premiazione, sentendo i complimenti che gli faceva Medvedev gli è apparso sul volto un inusitato largo sorriso.

Domani è un altro giorno, e per fortuna adesso c’è ancora tanto tennis all’orizzonte di un Murray così. Sarà protagonista d’un istante, d’un’ora? Non importa quel che sarà: basta vederlo giocare per farti dire che vale sempre la pena di continuare a crederci e lottare. Di farti dire che è un grande esempio. È lì a dirti che non è mai finita finché non è davvero finita. Anche quando hai cinque match point contro. Vero Andy?

Elis Calegari


Fonte: http://feed.livetennis.it/livetennis/


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