Di Agnese Valenti
La pallavolo è senza dubbio uno degli sport di squadra più popolari in Italia, insieme al calcio e alla pallacanestro. Come tanti altri settori nel nostro paese, anche il volley deve però fare i conti con un notevole “gap” geografico: giocatrici e giocatori, infatti, non sono equamente distribuiti su tutto il territorio nazionale.
I dati dei campionati di alto livello parlano di un’enorme disparità tra Nord, Centro e Sud. In Superlega, su 165 giocatori in totale, 95 sono italiani, e di questi solo 15, appena il 15,7% del totale, sono giocatori del Sud. Una sola squadra meridionale, la Tonno Callipo Calabria Vibo Valentia, partecipa al campionato. In Serie A1 femminile il bilancio è notevolmente peggiore: non c’è nessuna squadra proveniente dal Mezzogiorno e solo 10 giocatrici su un totale di 173 sono originarie del Sud, nonostante il numero di italiane sia piuttosto alto, ben 109, il 63% del totale.
Analizzando questi numeri ci siamo posti una semplice domanda (la cui risposta non è però altrettanto semplice): possiamo parlare di una “questione meridionale” nella pallavolo italiana ad alti livelli? E a cosa è dovuta questa disparità? Per approfondire l’argomento abbiamo intervistato il professor Daniele Serapiglia, docente a Bologna, Lisbona e Madrid, esperto di Storia dello Sport e membro della SISS (Società Italiana di Storia dello Sport).
La pallavolo nasce nel 1895 negli USA: come si è sviluppata in Italia? A livello territoriale quali sono state le differenze tra Nord, Centro, Sud?
“La pallavolo è arrivata in Italia con gli americani durante la Prima Guerra Mondiale. Di fatto, faceva parte dei programmi di svago delle truppe statunitensi al fronte e quando queste sono arrivate di sostegno in Italia, l’esercito italiano ha cominciato ad interagire con loro, peraltro in luoghi strategici come ad esempio Parma e Ravenna, che diventeranno importanti per la pallavolo italiana. Nelle retrovie, si è cominciato a praticare la pallavolo grazie alla YMCA (Young Men Christian’s Association) che era stata chiamata dal governo USA per organizzare il gioco, lo svago e lo sport delle truppe.
Come si è sviluppata la pallavolo nella penisola? Di fatto fino ad anni molto recenti, ma tutto sommato anche adesso, troviamo un nucleo fondamentale nelle regioni del Centro-Nord (Toscana, Emilia Romagna, Veneto e Lombardia) e molti meno tesserati nel Sud e nelle isole, nonostante ci sia una certa tradizione in Sicilia (soprattutto a Catania), a Matera e a Bari. Inizialmente era uno sport locale che, subito dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, si giocava soprattutto tra le file dell’esercito, nonostante che fosse uno sport non ancora agonistico e riconosciuto dal CONI (riconoscimento che avverrà solo nel secondo dopoguerra): era semplicemente uno sport di preparazione fisica, anche perché non esistevano ancora né il bagher e né il muro e poteva quindi essere considerato alquanto noioso.
La pallavolo arrivò al pubblico di massa nel contesto del “dopolavoro” durante il Fascismo: ogni azienda (soprattutto del Centro-Nord) aveva un proprio dopolavoro, in cui si faceva sport e si praticava un po’ la pallavolo. Sostanzialmente il volley delle origini era concentrato principalmente nelle regioni dove poi nascerà la grande pallavolo nostrana, quindi al Centro-Nord“.
Si può parlare di “questione meridionale” nel volley italiano di alto livello?
“Assolutamente. È importante notare che la pallavolo femminile del Sud ha vinto di più della pallavolo maschile della stessa zona. La maschile ha solo uno scudetto, quello di Carmelo Pittera del 1977-1978, a Catania; nel volley femminile abbiamo invece i quattro scudetti di Matera, lo scudetto di Bari e subito dopo quello di Catania. Questo perché quando la pallavolo si è sviluppata realmente in Italia, cioè nel secondo dopoguerra, lo ha fatto soprattutto al Centro-Nord in quanto il volley nel contesto della scuola e grazie a enti di propaganda sportiva, come il CSI (Centro Sportivo Italiano) e la UISP (Unione Italiana Sport Popolare) che facevano parte di una sorta di “battaglia politica” sul campo sportivo.
Il CSI era più vicino alla Democrazia Cristiana, mentre la UISP era, all’opposto, più vicina al Partito Comunista e al Partito Socialista. Paradossalmente, lo sport femminile si è sviluppato di più dove c’era un contrasto tra squadre vicine al PCI (facenti parte della UISP) e squadre più vicine alla DC; dove era molto forte la DC, invece, non c’è stato un grande sviluppo dello sport femminile, perché i cattolici dell’epoca non vedevano di buon occhio la partica dello sport tra le donne. Era presente l’idea di far giocare i giovani nell’oratorio, per poi portarli a messa e, magari, farli votare Democrazia Cristiana. Ma non era così semplice. Lo sport non è facilmente manipolabile”.
Quali sono le differenze tra Nord e Sud a livello di infrastrutture, palazzetti e palestre?
“Per rispondere parto dalla pallavolo femminile, che ha cominciato a espandersi negli anni ’80, quando in Italia c’era un programma di sviluppo di strutture pubbliche, all’interno delle scuole ma anche fuori. La maggior parte di queste strutture si trova però al Centro-Nord. Nelle regioni del Sud non soltanto c’è una carenza di infrastrutture sportive, ma c’è anche un minor investimento pubblico.
Una differenza rispetto al Nord esiste anche per quanto riguarda le infrastrutture stradali: nel Sud all’epoca dello sviluppo del volley c’erano molti paesi più piccoli (non in grado di creare entità sportive capaci di generare squadre e campionati) e c’era una forte emigrazione. Esistevano inoltre molti pregiudizi culturali sulla crescita dello sport femminile. Infine mancavano le infrastrutture all’interno della scuola, molto importanti per lo sviluppo dello sport. Si può vedere questo fenomeno rapportato anche ad un’importante regione del Centro-Nord, l’Emilia Romagna: ad esempio, il palazzetto di Modena venne costruito negli anni ’80, mentre prima si giocava in un capannone. La pallavolo era una sconosciuta, mentre oggi è uno degli sport più importanti nel nostro Paese, dopo calcio e basket.
Fino all’inizio degli anni ’80, tutto questo non esisteva e molto è cambiato in quella particolare decade. Questo è successo in virtù di una propulsione che veniva principalmente dalle squadre del Centro-Nord: Modena, Parma, Ravenna, Milano, in un periodo in cui ci fu un flusso di denaro enorme nel volley. Lo stesso Zorzi, quando venne chiamato a far parte della Mediolanum Milano, racconta di un assegno con cifre che fino a quel momento un pallavolista non aveva mai visto“.
Possiamo anche parlare di una questione culturale? È possibile che lo sport in alcune regioni sia visto come passatempo/hobby più che come “professione”, quindi con minore investimento di tempo, impegno e denaro?
“Secondo me è sicuramente una questione culturale, che però dipende anche dal tipo di lavoro, di impegno e di investimenti. Oggi in Italia, lo sport è molto vincolato al privato, quindi alle singole società sportive. Le persone devono avere denaro per far praticare lo sport ai figli oppure per praticarlo loro stessi. Certo è che negli anni ’80, quando ci fu la diffusione dello sport femminile (in particolare l’aerobica), vennero aperte molte palestre, soprattutto al Nord.
Esiste anche un ritardo culturale del Sud rispetto al Nord riguardante la pratica sportiva. Bisogna dire che la pratica sportiva si sviluppa attraverso le strutture, ma la passione sportiva esiste dappertutto e viene veicolata attraverso i media. A livello culturale c’è una diversa propensione allo sport laddove ci sono le strutture rispetto a dove non ci sono, nei luoghi in cui è stato fatto un ragionamento politico, un investimento sulle strutture sportive, e in quelli in cui non è stato fatto un ragionamento del genere.
Poi, per quanto riguarda le donne, c’è anche un fortissimo maschilismo che non aiuta l’espansione dello sport femminile al Sud. Nella pallavolo le donne sono molte di più degli uomini, e c’è stato addirittura un periodo in cui la pallavolo è stata considerata come uno sport propriamente femminile; ma, se andiamo a vedere la situazione dei vari organi federali e degli allenatori, anche nella pallavolo femminile la maggior parte di chi si trova in posizioni importanti è uomo. E bisogna far fronte anche a situazioni allucinanti, come ad esempio l’ultima vicenda della pallavolista Lara Lugli, che fortunatamente ha avuto grande rilevanza mediatica e ha avuto una grande risposta su campi maschili e femminili. C’è anche una grande difficoltà per le madri nel lasciare i bambini in istituti (nursery, asili) per andare a praticare lo sport, e questo limita fortemente l’età delle giocatrici”.
Quanto sono importanti la scuola e l’istruzione come veicoli per lo sviluppo dello sport, e della pallavolo in particolare?
“Si comincia a giocare a pallavolo proprio a scuola. Molte volte gli stessi istruttori scolastici ricoprono poi il ruolo di allenatori nelle società. Il problema è sempre lo stesso: legato alle strutture ma, soprattutto, legato alle persone. Dove attecchisce maggiormente lo sport? Dove c’è una maggiore istruzione. Dove ci sono un abbandono scolastico più alto e un’immissione nel mondo del lavoro precoce c’è anche una minore propensione allo sport. Cosa significativa degli anni ’80 è che lo sport si è andato a radicare dove più forti erano i movimenti femministi. Ad esempio, Catania vide un’espansione del movimento pallavolistico maschile e femminile: a Catania erano presenti movimenti femministi molto forti, come in tutta la Sicilia in generale. Questo fenomeno si vede in tutta Italia: se guardiamo una mappa, lo sport (soprattutto a livello femminile) ha una maggiore partecipazione dove ci sono più cultura e più strutture“.
C’è una differenza tra Nord e Sud a livello di investimenti nei settori giovanili (Trento e Padova nel settore maschile, Novara nel femminile)?
“Sicuramente. C’è anche una differenza di investimento nel tempo: tutti gli esempi che abbiamo fatto (Bari, Catania, Matera) hanno avuto un arco temporale molto limitato. Abbiamo avuto Bari che è stata ad alti livelli per 2-3 anni; Catania, appena dopo l’abbandono dello sponsor, pochi anni dopo la vittoria dello scudetto, ha perso appeal. Mentre Matera, con il crack della Parmalat, ha perso tutte le sue risorse economiche senza alcun intervento pubblico, né da parte del Comune di Matera né da parte della Regione Basilicata.
È l’investimento privato che fa crescere la pallavolo, insieme all’investimento scolastico. La pallavolo nasce nella scuola ma, ad alto livello, si crea negli istituti privati: c’è l’investimento privato, non solo quello pubblico. A Ravenna, dove c’è una grande tradizione pallavolistica, nonostante la fine del Messaggero e della Teodora, ci sono stati molti investimenti privati che hanno favorito il mantenimento di un movimento giovanile. A Matera il fenomeno è stato più discontinuo, nonostante i dieci anni passati ad alto livello avessero creato un bel progetto: la mancanza di investimenti privati ha causato la fine della società“.
Il progetto del Club Italia e in generale l’attività delle nazionali possono aver agevolato la crescita di nuovi talenti provenienti da regioni pallavolisticamente “povere”?
“Io credo di sì. Mentre seguivo la Roma Volley durante il suo periodo in A1, ho guardato con molto interesse lo sviluppo del Club Italia, che effettivamente riesce a creare uno spazio per i giocatori e le giocatrici di regioni più pallavolisticamente svantaggiate. Ma se non ci sono le strutture in loco, se non c’è lo sviluppo dei giocatori e dei movimenti pallavolistici direttamente sul posto, sia per la nazionale che per il Club Italia diventa difficile trovare giocatori provenienti dal Sud”.