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Roberto Lombardi ci lasciava 10 anni fa. Due ricordi toccanti

Il 18 marzo 2010 ci lasciava Roberto Lombardi. La terribile Sclerosi Laterale Amiotrofica non gli lasciò scampo, portandolo via prima di aver compiuto 60 anni. Fu un vero maestro, sia come divulgatore tv in centinaia di bellissime telecronache insieme a Rino Tommasi (che lo lanciò come commentatore con una geniale intuizione), Gianni Clerici e Ubaldo Scanagatta, che soprattutto come tecnico, prima in campo quindi come direttore della scuola maestri (che oggi porta il suo nome).

Laureato in matematica e fisica, riusciva a trasmettere cultura, l’amore per il gioco e per gli aspetti tecnici diventando di fatto un vero innovatore nel modo di comunicare il gioco negli aspetti più complessi. Dotato grande ironia e forza vitale, lavorò fino all’ultimo, anche quando la malattia lo costrinse su di una sedia a rotelle ed a ricorrere all’ausilio di un respiratore per riprendere fiato. Dopo una discreta carriera da giocatore (fu uno dei migliori azzurri dietro alla “generazione di fenomeni” che ci portò a vincere la Davis nel ’76) divenne tecnico molto preparato, e contribuì in modo decisivo alle carriere di Omar Camporese, Paolo Canè e Diego Nargiso, che seguì personalmente nella sua vittoria a Wimbledon junior nel 1987.

Oggi lo ricordiamo con nostalgia, un vero Maestro che avrebbe continuato a dare un contributo d’eccellenza alla crescita del tennis in Italia. Riportiamo due ricordi toccanti scritti da chi l’ha conosciuto molto bene, pubblicati nell’aprile del 2010 su 0-15: il primo scritto da Elis Calegari (diretto e giornalista, oltre che amico personale di Lombardi), il secondo da Federico Mordegan, ex pro e suo allievo.

Marco Mazzoni

Adesso che non è più, mi piace pensarlo finalmente libero.

Libero dalla morsa di quella malattia terribile che l’ha schiacciato fino a soffocarlo.
Senza catene, senza l’angoscia di quella fame d’aria costante che l’ha accompagnato negli ultimi mesi.
Dio solo sa quanto ha sofferto Roberto Lombardi e quanto gli sia stato persino difficile morire.
Sapeva da tempo ciò che lentamente e irreversibilmente lo stava minando dentro, sapeva che cosa sarebbe stato chiamato a sopportare, ed è stato mirabile nel provare ad essere un “hombre vertical” fino all’ultimo.
Del resto, non avrebbe potuto essere altrimenti: il suo esistere ha avuto una matrice sola: guardarla bene in faccia ‘sta vita un po’ puttana, farle un ghigno beffardo e andare oltre. Facendole capire, chiaro e netto, che lui era nato per scegliere e non per essere scelto.
Il corpo minuto e traditore ? Un problema relativo, anzi un ulteriore elemento da sfidare e superare, ché le ambizioni mica potevano essere prigioniere d’un telaio non adatto. Degli infiniti giorni passati al C.T. Alessandria col professor Cornara, spesi poi in sfide altrettanto infinite con quel ragazzino secco secco, diventato amico e duellante principe, che si chiamava Corrado Barazzutti, gli è rimasto per lungo tempo appiccicato addosso l’appellativo “Robertino”. Ma lui non era nato per essere “-ino”, aveva un ego bello pronunciato che in qualche modo doveva totalmente realizzarsi.
Se il gioco gli aveva regalato una più che onorevole carriera in Prima Categoria (numero 6 d’Italia ai tempi di Panatta & C. e una finale degli Assoluti, giocata e persa proprio contro “Barazza”) e a livello internazionale (con un set strappato a McEnroe e del quale Roberto amava raccontarti cento volte e risvolti…), subito dopo la laurea in matematica, era sceso in campo per riprendersi il tennis da protagonista assoluto, come studioso e scienziato, innamorandosi di tutto quanto nello sport di palla e racchetta era riconducibile a leggi fisiche e biomeccaniche.

Fu Riccardo Piatti a presentarmelo all’inizio degli Anni ’90, la prima volta che scesi a Roma da direttore di “Nuovo Tennis”. Come tutti, fui colpito immediatamente dal carattere forte e a tratti ruvido, dall’istantanea voglia di metterti in soggezione e alla prova.
Il nostro primo colloquio fu strano, fatto di indagini e sottintesi: nel bel mezzo d’una frase ci cacciava dentro un vocabolo astruso e desueto, giusto per capire se capivi; il nome d’un pittore e una citazione di Toqueville. Per puro caso conoscevo Alphonse Mucha e provai a rilanciare con un discorso sull’Art Nouveau, Praga e la Mittel Europa e feci centro. Roberto prese a guardarmi con aria meno distratta e poche settimane dopo iniziò a scrivere su “Nuovo Tennis”.
Mese dopo mese nacque affetto vero, tanto da portarmi in dote al giornale anche quella straordinaria donna che è stata Marinella Molinari, la sua prima moglie.

Anni difficili per Roberto, passati col sorriso sul volto e la morte nel cuore, per la malattia che già gli stava portando via Marinella e i guai suoi che l’avevano condotto a due difficili interventi chirurgici.
Ma lui era uno che sapeva e voleva superare ogni ostacolo a fronte alta, e riuscì ad andare oltre. Sopravvivendo al dolore e alla dipartita di Marinella, senza lamentarsi e tediarti mai, tuffandosi nel lavoro, nell’agognato Centro Studi della F.I.T. per ritrovare slancio e vita, nelle mille telecronache su “Sky”, dove gli piaceva dar sfoggio alla sua cultura e su questa giocarci un po’.
Poi una forma molto simile alla SLA l’ha pugnalato alle spalle ed è stato terribile parlargli due anni fa a Roma, sulla terrazza della sala stampa: “Elis, sono finito sotto un tram !” e io che subito non capivo e poi speravo di non capire. Da lì, la discesa è stata lenta e terribile. Bastava guardare le ultime puntate della sua rubrica tecnica sui colpi dei campioni su “Supertennis” per rendersene conto: il respiro sempre più affannoso, quella cassa toracica che non voleva più saperne di espandersi. La pena la intuivi tutta.
Però Roberto, pur già costretto sulla sedia a rotelle, non mollava e stringeva i denti una volta di più. Andava avanti lo stesso.
Ed è stato così sino all’ultimo.

Adesso che non è più, voglio pensarlo di nuovo libero. Vicino a Marinella.
Come quella sera di maggio a Roma tanto tempo fa, a casa loro, in via dei Giubbonari, a pochi metri da Campo de’ Fiori: era stanco Roberto, ma pretese di farci uscire nella notte, per ingoiarsi un altro po’ di vita. Sorrideva, col toscano in bocca, e provava a nascondere dolori e ferite profonde.
Da lì in avanti i giorni avrebbero preso a picchiare ancora più duro, ma non credo abbia pianto mai, che si sia fermato un attimo per compiangersi. Mai stanco della vita.
Adesso non è più, povero amico mio, e non c’è più tempo per progettare altre cose insieme: “Dai Elis, chiamami quando vuoi e proponimi qualcosa: sai che con te collaboro sempre volentieri e ho un affetto speciale…”
Non c’è stato tempo. Neppure per vivere con Caterina, la seconda moglie, tutto quello che sarebbe stato profondo e giusto.
Piangere non serve, ma è dura. L’unica è provare a rilanciare, proprio come avrebbe fatto lui. Cercando di dirsi che oggi è già un altro giorno e si ha il dovere di combattere fino all’ultima palla dell’ultimo quindici.
Come si deve vivere e come si deve morire.
Anche a me mancherai; quanto l’ultimo abbraccio che non t’ho dato e l’ultimo sorriso un po’ gaglioffo che non ho avuto.
Ciao Roberto, ciao straordinario e sfortunato amico mio.
Elis Calegari

Era l’estate del 1983 quando i miei genitori ricevettero una telefonata dal tecnico Roberto Lombardi che mi proponeva di andare sotto le ali della Federazione al centro tecnico di Bologna. Allora avevo appena 13 anni e la scelta non fu delle più facili, ma la passione per il tennis era così tanta che non potevo rinunciare ad una occasione del genere. Arrivai allo Junior Rastignano un pomeriggio di settembre prima dell’inizio delle scuole e nell’atrio del club mi aspettavano Roberto Lombardi e sua moglie Marinella. Furono fin da subito gentili ed ospitali, anche perché io ero il più piccolo del gruppo e per me non fu facile nei primi mesi.

Sia Roberto che Marinella avevano un carattere molto forte. Quando Roberto arrivava al tennis camminando con la testa bassa ed il ciuffo a penzoloni, voleva dire che non era giornata e bisognava rigare dritti, senza fiatare. Marinella era determinata nel seguirci dopo scuola ma allo stesso tempo, sebbene non avesse figli, sapeva aiutarti nei momenti difficili. Ricordo che nei primi periodi sentivo la nostalgia di casa e volevo quasi andarmene, ma lei è riuscita con la sua dolcezza a farmi restare. Roberto era una persona che non ti metteva a tuo agio, ti guardava con uno sguardo che ti faceva capire che quello che stavi pensando lui lo aveva già capito, ma quando scherzava era veramente uno spasso perché riusciva a inventare battute straordinarie; ricordo che scherzava molto con il mio accento veneto, e con tutti aveva una battuta pronta ma guai farlo arrabbiare.

Dopo l’anno trascorso a Bologna, ci trasferimmo tutti a Riano ed il mio gruppo ebbe come responsabile Riccardo Piatti, mentre Roberto allenava Camporese, Rossi, Nargiso ed altri. Ciò nonostante lo vedevo tutti i giorni e l’affetto che ci aveva legati a Bologna continuò in ogni momento.

Roberto era una persona con una grande personalità. Durante gli allenamenti sentivi il suo timbro di voce in tutti i campi del centro, era un grande motivatore e soprattutto conosceva il tennis come pochi. L’ho rivisto dopo tanti anni durante il mio tirocinio alla scuola mastri nel 2001. E’ stato un piacevole ritrovo, nel tempo libero andavo a salutarlo e parlavamo di tutto e non solo di tennis; le sue lezioni erano bellissime, non ti annoiava mai, riusciva a catturare l’attenzione in qualsiasi momento. L’ultima volta che l’ho visto è stato a Vicenza in occasione del Panathlon, una serata dedicata al tennis. Stava ancora bene e come al solito teneva banco sia durante la conferenza, sia durante la cena con battute di tutti i generi. Dopo purtroppo ho avuto solo brutte notizie… La sua scomparsa mi ha toccato molto, perché mi sono accorto che da quando gioco a tennis Roberto è stato molto presente nella mia formazione, sia da giocatore under che quando ho deciso di insegnare. E non dimenticherò le sue telecronache, restavo sveglio fino a tardi ad ascoltarlo, era presente in tanti momenti della giornata.
Mi auguro che Lui e Marinella troveranno migliore fortuna nell’aldilà perché qui la buona sorte non è stata sicuramente dalla loro parte.
Vi voglio bene.
Ghigo (come tu per primo mi avevi dato questo nomignolo).

Federico Mordegan


Fonte: http://feed.livetennis.it/livetennis/


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