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    Valeria Caracuta e il volley al Sud: “Difficoltà doppie, ma si può fare”

    Di Agnese Valenti Sesto appuntamento con le “Storie dal Sud“, il ciclo di interviste dedicato da Volley NEWS ai personaggi, le storie, le opportunità e i problemi della pallavolo al Meridione. La protagonista di oggi è Valeria Caracuta, palleggiatrice salentina che non ha bisogno di presentazioni: il suo curriculum parla tra l’altro di due scudetti, due Coppe Italia e tre Supercoppe Italiane, oltre ai successi sulla sabbia. Caracuta, che nell’ultima stagione è tornata a giocare nel Mezzogiorno con la Seap Dalli Cardillo Aragona, ha anche fondato una scuola di pallavolo a Lecce, la città in cui vive. Come si è avvicinata alla pallavolo? “Grazie alla mia famiglia. È una storia semplice: quando io e mia sorella gemella Laura siamo nate, la mia mamma giocava a pallavolo e mio padre allenava. Mia madre ha continuato a giocare fino ai miei 7-8 anni, per cui fin dal primo momento ci hanno portate nei palazzetti, con la palla in mano, ed è stato piuttosto semplice avvicinarsi a questo sport. È pur vero che da piccole ci hanno lasciato libere di scegliere: mia sorella ha iniziato con la danza, mentre io con la piscina, ma alla fine l’amore e la passione per la pallavolo sono state troppo forti“. Quando ha capito che la pallavolo poteva diventare un mestiere? “L’ho capito subito: ho sempre avuto le idee molto chiare. Dal primo momento in cui ho iniziato a giocare, conoscevo il mio obiettivo e quale fosse il mio sogno. Già quando ho finito le scuole medie avevo detto a papà ‘fatemi fare una scuola che non mi porti a fare necessariamente l’università!’: loro ovviamente contentissimi di avere una figlia che non voleva studiare (ride, n.d.r.)! Non sapevo se ci sarei riuscita, ma ho capito fin da subito che volevo mettere le mie energie in questo mio progetto per il futuro“. Foto Facebook Valeria Caracuta Cosa pensa manchi al Sud per arrivare ai livelli che invece squadre del Nord riescono a raggiungere? Pensa che i giovani meridionali abbiano delle difficoltà a trasformare la pallavolo in un vero e proprio lavoro? “Sì, credo di sì. Le strutture e la disponibilità sono differenti rispetto al Nord. Non vuole essere assolutamente una discriminazione, ma è la realtà. Qui è tutto un po’ più complicato. Ho voluto creare una scuola di pallavolo due anni fa, insieme alla mia famiglia, proprio per questo motivo, perché credo che si debba dare a tutti la possibilità di maturare e sviluppare questa passione. Vorrei mostrarmi come un esempio: se ci credi davvero puoi raggiungere i tuoi obiettivi. Certo, con il doppio delle difficoltà: se io non avessi avuto la mia famiglia che mi accompagnava a 40 chilometri di distanza tutti i giorni, o comunque la disponibilità di persone che mi sostenevano e mi assecondavano in questo sogno, sarebbe stato tutto più complicato. Però, sicuramente si può fare. Con tante difficoltà, ma si può fare“. La ValeCaracuta Volley School, appunto: una scuola di pallavolo per ragazze e ragazzi dai 7 ai 15 anni. Come sta andando questa esperienza e pensa che potrebbe essere una strada per sviluppare la pallavolo di base nella sua regione, da un lato, e crearsi un’alternativa professionale dall’altro? “L’abbiamo creata con l’idea di trasmettere questa passione: mio padre non ha mai smesso di allenare i giovani, e volevo che anche lui avesse la possibilità di stare a contatto nuovamente con altri futuri giocatori. È anche un discorso legato al mio futuro, vorrei coltivare questo progetto finché ci sarà la possibilità di farla crescere. Detto questo, sta andando bene. Purtroppo anche noi abbiamo avuto difficoltà legate al Covid: ovviamente è stato complicato per i ragazzi. A livello più alto hai delle tutele, mentre i giovani fino all’ultimo sono un po’ in bilico in questa situazione. Anche noi siamo stati in bilico: non sapevamo se continuare o meno. Con le nostre forze ci abbiamo provato anche quest’anno, e alla fine è andata abbastanza bene. Speriamo che si possa tornare a lavorare bene e alla normalità“. Foto Instagram Valeria Caracuta Ha menzionato la sua famiglia, che la sosteneva nei suoi spostamenti. Pensa che questa differenza tra Nord e Sud possa essere anche una questione culturale, che lo sport al Mezzogiorno sia visto spesso solo come un hobby? “Per l’esperienza che ho, mi rendo conto che sono stata davvero fortunata. Pensando ad alcune ragazzine che hanno iniziato a giocare a pallavolo con me quando ero piccola, probabilmente non avevano la stessa passione oppure avevano anche altri interessi che potevano portarle lontano dai campi. Infatti hanno tutte smesso a distanza di qualche anno. Noi, come squadra, abbiamo tanti giovani che hanno tanta voglia e soprattutto famiglie che hanno disponibilità a portarli in giro. Un esempio: quando giocavo a Scandicci sono partite in 3-4 e sono venute a vedere la mia partita con i genitori. È chiaro che non tutti possono avere la possibilità: non per una disponibilità economica, ma anche di impegno e altri fattori. Non so se è una questione culturale: fortunatamente non ho mai conosciuto famiglie che hanno allontanato dalla pallavolo i propri figli. Penso che lo sport, a prescindere da tutto, sia fondamentale per tutti i ragazzi: ti arricchisce tanto e ti fa crescere. La questione culturale potrebbe anche esserci, ma non ho avuto esperienze tali da confermarlo. Forse anche essendo stata ad un certo livello, spero di trasmettere ai nostri ragazzi qualcosa in più che magari in altre società può non esserci“. Dopo aver giocato molto al Nord, si è trasferita in Sicilia: uno degli obiettivi della sua società è “creare un network di imprenditori ed imprese”. Lei crede che questa unità che finora è mancata alle società meridionali, possa essere una ricetta efficace per far crescere questa disciplina anche al Meridione? “Assolutamente sì. Mi reputo fortunata: ho fatto questa scelta perché sapevo che Aragona è una città storica che vuole avere non solo una solidità a livello economico, ma anche a livello strutturale. Credo ci sia bisogno di altri aiuti qui al Sud, non solo della passione. È un discorso diverso dal Nord: al Nord ci sono maggiori possibilità, più aziende che possano investire. Al Sud bisogna trovare, con le proprie forze, qualcuno che abbia voglia e che creda in questi progetti. Sono convinta che la società di Aragona sia una società solida, che sta crescendo molto, sotto tanti aspetti. Quest’anno ci sono altre società che hanno raggiunto l’A2 in Sicilia, e sono società che vogliono strutturare qualcosa. Speriamo che si riesca a farlo, e che ci siano gli aiuti per farlo. Sono sicura che questo potrebbe essere un primo passo per far sì che il Sud possa rinascere anche ad alto livello sportivo“. Foto LVF Durante la sua carriera si è spostata molto, ha anche giocato all’estero: quali pensa siano le differenze tra sistema italiano e straniero? “Per quanto riguarda la Francia, non posso non menzionare il tema del professionismo. In Francia hai le ferie pagate, hai una busta paga, insomma è un lavoro pienamente riconosciuto dallo Stato. Questa è la differenza principale: per il resto la palla è tonda, quindi anche se il livello tecnico può essere più o meno alto, le differenze sono davvero minime. In Polonia ci sono stata solo due mesi: la differenza che mi ha colpito di più è che la pallavolo è vista come il primo sport. I palazzetti si riempiono come lo stadio, il tifo è da stadio. Non che in Italia, ad alti livelli, non ci sia seguito, ma in Polonia anche l’ultima squadra del campionato è seguita molto, ogni partita è un evento. È veramente pazzesco!”. Qualche idea per il futuro? Le piacerebbe rimanere al Sud? “Se avrò la possibilità di rimanere ad Aragona, mi piacerebbe farlo. Sono stata molto bene. Poi io amo il ‘calore’ del Sud! Sono stata benissimo in molte società, ma l’affetto che ho trovato in alcuni paesini del Sud è veramente inimitabile. In tempi brevi, mi piacerebbe poter continuare lì. Se così non fosse, valuteremo altro. Piano piano vorrei riavvicinarmi a casa: ho un’età per cui mi piacerebbe di più godermi la famiglia e la mia nipotina che è nata da due mesi“. LE PUNTATE PRECEDENTI:1. La questione meridionale nel volley: perché manca il Sud ad alti livelli?2. Filippo Maria Callipo: “Sacrificio e costanza, le chiavi del successo di Vibo”3. Carlo Parisi: “Al volley del Sud mancano cultura e capacità dirigenziale”4. Giuseppe Guarracino e il network Volley Lab: “Al Sud servono buoni esempi”5. Vincenzo Di Pinto: “Il Mezzogiorno deve crescere nella capacità di fare sistema” LEGGI TUTTO

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    Vincenzo Di Pinto: “Il Mezzogiorno deve crescere nella capacità di fare sistema”

    Di Agnese Valenti Torna il nostro appuntamento con la rubrica “Storie dal Sud“, un ciclo di interviste ad allenatori, giocatori e addetti ai lavori per raccontare le opportunità e i problemi della pallavolo nelle regioni del Meridione. Il personaggio di oggi è forse l’uomo più rappresentativo dell’intero movimento meridionale: il tecnico Vincenzo Di Pinto, pugliese di Turi, che ha appena riportato in Superlega la Prisma Taranto, importante punto di riferimento per la pallavolo pugliese e per tutto il mondo dello sport meridionale, dopo 10 anni di assenza dalla massima serie. Lei è in assoluto l’allenatore italiano più legato al Sud, dove ha conquistato ben 12 promozioni. Come mai ha sempre scelto di lavorare in squadre del Mezzogiorno? “Nella mia carriera mi sono arrivate tantissime proposte, anche per giocarmi lo scudetto. Ho sempre cercato un buon risultato al Sud, dove è sempre stato complicatissimo. Anzi, adesso le cose sono un po’ meno complesse, mentre prima era praticamente impossibile. Ma a me le cose impossibili sono sempre piaciute. Sono un idealista. Quindi un po’ per la famiglia, un po’ per i miei ideali, ci tenevo a fare il grande risultato al meridione. Ecco perché sono riuscito ad ottenere così tante promozioni: il 90% dei cicli dell’A1 pugliese sono miei. Ma purtroppo il meridione ha poche realtà di alto livello“. Ha un profondo legame con la città di Taranto, dove ha allenato per 9 stagioni in diversi periodi: come ha ritrovato l’ambiente pallavolistico della città, a tanti anni di distanza dalla rinuncia alla massima serie, e quali pensa siano i punti di forza della società e della città stessa? “Prima di tutto, ho ritrovato la città in grande depressione. Purtroppo i fatti degli ultimi anni legati alla crisi dell’Ilva e i problemi economici l’hanno condizionata molto, deprimendo tutto l’ambiente tarantino. Pallavolisticamente, non c’è molto, ad alti livelli. Esattamente come quando arrivai la prima volta, ho deciso di scommettere su Taranto. Le due situazioni sono simili per un motivo semplice: ho ritrovato la forza nel binomio tra il presidente Tonio Bongiovanni e la vicepresidentessa Elisabetta Zelatore. Abbiamo sempre avuto un bellissimo rapporto, ci sentivamo periodicamente, e quando hanno avuto l’idea di rientrare, ci siamo consultati a vicenda: loro pensavano ad una A3, mentre io consigliai di fare subito una serie A2, perché c’erano le giuste potenzialità economiche e di marketing. Poi, è partito tutto ed è andata benissimo. La cosa fondamentale è stata un’amministrazione comunale molto dinamica e presente, soprattutto il sindaco Rinaldo Melucci e anche l’assessore allo Sport Fabio Marti. È un’amministrazione giovane, che si dà da fare. Già in partenza abbiamo trovato la politica ad appoggiare tutto il progetto, e che si è immediatamente mossa anche per migliorare il palazzetto. Sono stati davvero di parola“. Foto Lega Pallavolo Serie A Purtroppo, in molti altri casi manca l’apporto economico ma anche politico dell’amministrazione pubblica per realizzare progetti pallavolistici duraturi. Pensa che questo sia un fattore fondamentale per la crescita del volley meridionale? “È chiaro che già avere un appoggio della politica che stimola la parte economica ed è di supporto alla pallavolo è un importante passo in avanti. Ma qui al Sud è più complicato, per un motivo semplice: la conformazione geografica dell’Italia non aiuta il meridione. Tutta la pallavolo maschile, tranne per il successo di Pittera a Catania, si è sempre sviluppata al Nord. Non è un caso, è indubbio che al Nord ci sia un’economia migliore. È questo il vero problema. È difficile fare risultati per la pallavolo al Sud. Quando ho iniziato il progetto a Gioia del Colle, ottenendo la mia prima promozione prima in A2 e successivamente in A1, la pallavolo si fermava effettivamente a Bologna: al di sotto c’era solamente Falconara, che dipendeva molto dal proprio vivaio. Era impossibile fare pallavolo al Sud. I giocatori non volevano minimamente scendere. Quando Pittera vinse lo scudetto, c’era un importante zoccolo duro di meridionali e siciliani, che poi ha completato con qualche nome proveniente da fuori. Dopo quel famoso scudetto, in Puglia e in tutto il Meridione c’è stato il deserto, il nulla. Occorreva creare quindi un ciclo, ma con giocatori di zona e meridionali. Ecco perché durante il mio primo ciclo di Gioia del Colle, che fu poi un grande segnale per tutta la pallavolo pugliese, avevamo 8 giocatori su 12 pugliesi, e riuscimmo a fare una grande scalata, anche in A1, dove sfiorammo dei play off che erano a portata di mano: comunque, quando una squadra ha pochi soldi e si ottiene già un risultato del genere si festeggia come se si fosse vinto lo scudetto! Questa prima esperienza è stata la mia fortuna perché mi ha portato ad avere le prime proposte importanti da tutta Italia, tra cui scelsi Macerata. Adesso è un po’ diverso: possiamo dire che i giocatori professionisti in Puglia e nel Meridione in generale hanno iniziato ad arrivare dopo che feci la semifinale scudetto a Macerata. Anche in quel caso scelsi di non andare né a Roma né a Brescia, per giocarmi lo scudetto, ma iniziai un ciclo a Taranto: è stata la prima volta che, pur partendo dall’alto, feci la scelta di tornare al Sud a Taranto, dove non c’era pallavolo ad alto livello in tutta la regione. Allora c’era il presidente Dibattista, che aveva fatto da sponsor anche a Gioia del Colle. Provammo ad aprire un ciclo, e fu lì che cambiai strategia: quando mancano le risorse economiche e pallavolisti di livello, diventa difficile diffondere e creare competenze specifiche. Dirigenti, allenatori, non c’era nulla in circolazione. La mia domanda era: come poter creare un ciclo nel meridione partendo da una posizione di isolamento? Occorreva creare nuovi dirigenti, nuovi allenatori di una certa competenza per divulgare la pallavolo. Era importante creare una nostra scuola, in cui io ero l’allenatore: idee condivise da Giuseppe Manfredi, attuale presidente della Federazione, con cui siamo diventati amici. C’era una condivisione con lui e anche con Vito Primavera (appena rientrato come nuovo Direttore Generale della Prisma Taranto) e c’era quest’idea per cercare di diffondere il nostro ‘Vangelo’, creare una nostra scuola tecnica“. Secondo lei adesso la situazione è migliorata? “Sì, adesso è decisamente migliorata. Ci sono più allenatori in circolazione, più preparatori, più dirigenti. Se mi chiede ‘sono preparati per la Superlega?’, quello è un altro discorso: ma almeno c’è una certa competenza. Ci sono anche importanti dirigenti, tra cui Manfredi. C’è un gruppo di dirigenti che negli anni ha avuto esperienze, ma spesso solo per poco tempo, in quanto la pallavolo non ha mai avuto progetti duraturi, ma hanno comunque fatto dell’esperienza. Qualcuno ha anche fatto esperienza all’estero. Adesso c’è un gruppo di dirigenti in grado di dare un contributo. Sarebbe ora importante essere uniti in questo gruppo ed evitare l’individualismo. È questo un altro problema della pallavolo meridionale. Mentre al Nord l’economia ha permesso sempre più di creare sistemi, di evolversi, al Meridione ci sono più piccole aziende isolate. Ma adesso il meridione sta crescendo nella sua capacità di fare sistema, di aiutarsi l’un l’altro. Uno dei problemi è un certo individualismo che ancora resiste: serve compattezza, e credo che qualche segnale incoraggiante stia emergendo“. Foto Lega Pallavolo Serie A La città di Taranto negli anni scorsi è stata al centro delle cronache nazionali a causa della crisi ambientale ed occupazionale dell’impianto siderurgico della città. Nonostante ciò, la città vuole tornare alla luce, dal punto di vista economico, sociale e turistico. Un grande progetto di rilancio per Taranto è la realizzazione dei Giochi del Mediterraneo nel 2026. Lei pensa che lo sport possa essere un mezzo di rilancio non solo economico, ma anche a livello di immagine? “Certo. Lo sport è un’attività sociale ed economica come tutte le altre. Io lo chiamo ‘l’antistress della società’, perché è un modo di fare economia ma serve anche a creare passione e piacere. È sempre un modello importante, perché la società ha bisogno della salute delle persone. Le passioni servono a distrarsi, ad allontanare la testa dai problemi. Se lo sport è vincente, diventa un’arma trainante, sia economica che un appiglio. Come si dice: ‘vincere aiuta a vincere’. Se non c’è qualcosa di positivo in un ambiente è difficile partire sempre da zero. Adesso avere la pallavolo in Superlega per Taranto non è roba da poco. Devo dire la verità: la prima volta che con Taranto siamo arrivati in Serie A1, l’attuale presidente Bongiovanni, che all’epoca era vicepresidente ed era appena arrivato, insieme a Elisabetta Zelatore portarono tanto entusiasmo, un grande aiuto al sottoscritto e anche a Vito Primavera. Grazie al loro entusiasmo, unito a quello del presidente Dibattista, fu la prima promozione di una squadra sportiva in A1 a Taranto. Non c’era mai stata una squadra della città in un massimo campionato nazionale. Dopo un po’ successe al basket femminile, che non solo arrivò in A1 femminile, ma vinse addirittura lo scudetto. Questo per far capire che l’idea, politica in partenza, era di creare qualcosa di vincente, e noi diventammo un simbolo della positività di un ambiente. Come speriamo riaccada quest’anno“. Fonte: Prisma Taranto Le infrastrutture al Sud spesso scarseggiano, non hanno una manutenzione adeguata oppure sono addirittura abbandonate. Taranto, anche in prospettiva dei Giochi del 2026, si sta preparando ad un grande rinnovamento strutturale ed impiantistico. Pensa che una riqualificazione delle infrastrutture sportive possa condurre anche ad una riqualificazione del territorio e ad un rilancio della pallavolo al Sud? “Taranto ha già le infrastrutture: molto spesso queste mancanze sono dovute a disorganizzazione di società e mancanza di iniziative e dirigenti qualificati. A Taranto ci sono due palazzetti dove sarebbe possibile fare campionati di A1: il PalaMazzola e il PalaFiom. Il PalaMazzola negli anni non è stato gestito nel modo giusto, ed adesso servirebbe un nuovo piano per riportarlo a livelli alti. Io ho già visto quello che quest’amministrazione sta facendo: il sindaco Melucci e l’assessore Marti in particolar modo. Sarà un PalaMazzola molto moderno e all’avanguardia. Adesso tutte le manifestazioni sportive sono programmate per creare uno spettacolo completo, con ristoranti e tante altre attività. Loro hanno già programmato una ristrutturazione del PalaMazzola ma anche dello Stadio Iacovone. Stanno ristrutturando tutto in modo molto moderno: hanno idee molto moderne per la città, e si stanno veramente dando da fare. Occorre avere un po’ di pazienza“. LE PUNTATE PRECEDENTI:1. La questione meridionale nel volley: perché manca il Sud ad alti livelli?2. Filippo Maria Callipo: “Sacrificio e costanza, le chiavi del successo di Vibo”3. Carlo Parisi: “Al volley del Sud mancano cultura e capacità dirigenziale”4. Giuseppe Guarracino e il network Volley Lab: “Al Sud servono buoni esempi” LEGGI TUTTO

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    Giuseppe Guarracino e il network VolleyLAB: “Al Sud servono buoni esempi”

    Di Agnese Valenti Il viaggio di Volley NEWS nella pallavolo delle regioni del Sud, con i suoi problemi ma anche le sue opportunità, prosegue con una nuova intervista. Questa volta partiamo da un esempio più che positivo, quello di VolleyLAB, network che riunisce 8 società pallavolistiche di altrettante regioni meridionali con il claim “Pallavolo made in Sud“: ne parliamo con il fondatore e coordinatore tecnico Giuseppe Guarracino. Come nasce l’idea di volleylab.com e come si è sviluppata questa realtà? “Nel corso degli anni sono stati creati svariati contesti associati alla denominazione ‘Volley Lab’: ricordiamo realtà di primo livello come Quasar Massa o Imoco Volley Conegliano. Addirittura il settore tecnico Fipav ha creato un proprio Volley Lab. Noi l’avevamo già strutturato fin dal 2004, ma è specialmente negli ultimi cinque anni che abbiamo sviluppato questa progettualità incentrata sull’organizzazione di tornei, eventi, stage, summer camp, formazione dirigenziale e tecnica. Ci ispiriamo alla strutturazione dei network più famosi e importanti in Italia, come quelli del Consorzio Vero Volley e della Scuola di Pallavolo Anderlini, ma anche ad altri progetti che hanno assunto questa forma: nel 2015 abbiamo provato ad associarla alle otto regioni del Sud che hanno più bisogno di una spinta da un punto di vista organizzativo e tecnico, a livello di idee e a livello di persone che portino avanti con passione dei progetti pluriennali sui territori. Non abbiamo solo realtà d’eccellenza, ma ritroviamo una grande varietà di contesti all’interno di volleylab.com. Ad esempio, in questi cinque anni abbiamo avuto società che hanno militato in A2 Femminile così come anche società che hanno fatto solo campionati giovanili o promozionali. Avere un riferimento territoriale in ogni regione ci ha permesso di diventare, in pochi anni, il circuito di pallavolo giovanile più grande del Sud Italia”. C’è purtroppo una risaputa differenza tra lo sviluppo di squadre di alto livello (sia nel femminile che nel maschile) nelle regioni del Centro-Nord e nelle regioni del Sud. Molto spesso si fa solamente riferimento all’aspetto economico del problema, ma secondo lei ci sono altri fattori che sfavoriscono lo sviluppo di questa disciplina ad alti livelli al Sud? “Ho tanti amici nella pallavolo d’eccellenza del Nord ed ho avuto la fortuna di vivere da vicino realtà come Orago, Anderlini o l’Asystel Milano di tanti anni fa: ho visto come si sono evoluti alcuni di questi contesti. Al Sud il problema sostanziale è che abbiamo dei cattivi esempi: si perpetua un modello di società che tende a fiorire per poi scomparire. Alcune di queste cattive abitudini sono state assorbite come una mentalità. Tutto ciò di nuovo che nasce non viene guidato sul giusto percorso. Quando qualcuno coltiva qualche idea nuova, con tanta volontà, si ritrova a lottare con altre società che arrivano per prime ad un determinato obiettivo, ma non ci arrivano con i mezzi giusti. Sono progetti che poi durano poco e lasciano strascichi sotto tutti i punti di vista. Nessuno ha il coraggio di scegliersi il ‘buon esempio’: analizzarlo, valutarlo e portarlo avanti. È chiaro che spesso sono quelli i percorsi più faticosi. È più facile individuare obiettivi più a breve termine che creare qualcosa che duri nel tempo. Ci sono società che fin dall’attività territoriale hanno velleità di arrivare ai massimi livelli senza sapere nemmeno come fare. Per riuscirci coinvolgono semplicemente uno sponsor (magari il padre della propria campionessa di turno), sperperano le uniche risorse disponibili e poi si ritrovano senza sponsor, senza campionessa e con un pugno di mosche in mano: non è questo il modo di fare pallavolo. Noi, attraverso volleylab.com, cerchiamo di migliorare questi aspetti: vogliamo ispirare confronto, creare solidi valori ed una formazione etica che aiuti le società a trovare il percorso giusto“. Foto VolleyLAB.com L’obiettivo principale del vostro network è quello di creare percorsi sportivi e tecnici che diano una concreta possibilità ai giovani talenti meridionali di sviluppare la propria carriera sul territorio. Con quali mezzi cercate di raggiungere questo intento? “Da questo punto di vista non abbiamo cercato troppi consensi sul territorio: abbiamo semplicemente cercato di far capire che far crescere il network, a cui si cerca di sviluppare un senso di appartenenza, potrebbe essere più importante che portare avanti la propria bandiera e nei momenti di difficoltà trovarsi solo. Portiamo avanti questi valori attraverso le associazioni che ci rappresentano. Cerchiamo di individuare la metodologia corretta, di trovare qualcosa di innovativo da condividere tra di noi. Proviamo anche a valorizzare risultati che altrove hanno molto più risalto: vincere un titolo provinciale a Milano oppure a Monza non è come vincerlo da noi al Sud. Non solo per il valore tecnico, ma anche per la ricaduta sulla società stessa. Spesso al Sud il risultato passa inosservato. Porta più blasone e prestigio ad una società del Centro-Nord che ad una del Centro-Sud“. Purtroppo i giovani talenti del Sud sono spesso costretti ad emigrare proprio a causa della mancanza di realtà di alto livello (Superlega e Serie A1 femminile) dal territorio. Come si può cercare di incentivare le piccole società a “coalizzarsi” per cercare di creare realtà più grandi e competitive a livelli più alti? “È un tema che può essere diviso in tre aspetti. Il primo è quello sociale: il ragazzo o la ragazza del sud emigra per ‘definizione sociale’, perché sente che il suo futuro è fuori dal proprio territorio, e questo ovviamente limita lo sviluppo delle realtà locali. In secondo luogo, spesso al Sud non diamo valore a quello che facciamo: dovremmo sentirci dei territori che possono anche accogliere e non soltanto da cui ‘scappare’. Infine, le società dovrebbero iniziare a fare un salto di qualità nella programmazione: la soddisfazione non deve consistere nel raggiungere lo stesso obiettivo che altri hanno ottenuto con mezzi non adeguati, ma nello sviluppare l’organizzazione logistica, le risorse umane, la gestione economico-fiscale. Chi cresce in questi aspetti riesce a strutturare una realtà più duratura e su territori più ampi. Bisognerebbe iniziare ad aprire gli occhi da questo punto di vista e vivere la propria società meno ‘egoisticamente’.“ Lavorate molto con i settori giovanili, organizzando tornei sul territorio ma anche stage sulla gestione operativa dei gruppi giovanili. Quali sono le difficoltà logistiche che le società del territorio più spesso incontrano? “Anche in questo caso possiamo associare questa situazione a un problema di mentalità: al Nord ho visto genitori fare tutti i giorni decine di chilometri per accompagnare l’atleta al contesto d’eccellenza di turno. Al Sud sembra invece che spostarsi anche da un paese all’altro sia impossibile da organizzare. Anche le famiglie non inquadrano l’attività sportiva d’eccellenza come qualcosa che si riesca ad incastrare nella vita quotidiana. Siamo comunque fiduciosi che pian piano le cose cambieranno in meglio e magari chissà anche allenarsi tutti i giorni diverrà una prassi anche da noi“. Foto VolleyLAB.com Abbiamo constatato che un’altra grave difficoltà di buona parte del Meridione è la carenza oppure l’abbandono delle infrastrutture: qual è il quadro della situazione, nella vostra esperienza? “Alcune località hanno delle ‘cattedrali nel deserto’: ad esempio, ricordo paesini in Calabria o Sicilia con poche migliaia di abitanti che dispongono di mega strutture che potrebbero ospitare grandi eventi, ma logisticamente isolate. All’opposto in una città di milioni di abitanti, come Napoli o Palermo, ci sono strutture che puntualmente vengono rese fatiscenti da un’assenza di manutenzione e poi magari chiuse per anni interi in attesa dell’appalto. Esistono dei paradossi da questo punto di vista. In secondo luogo, sicuramente la pubblica amministrazione del Sud relega lo sport in una posizione di secondo piano. I tempi dello sport sono veloci, sono situazioni in cui bisogna prendere decisioni in poco tempo. Ma spesso gli interessi sportivi non riescono a collimare con quelli dell’amministrazione pubblica e dei suoi tempi ‘preistorici’. A volte il giusto riscontro, sia burocratico che morale, non avviene affatto“. La scuola è un vettore molto importante per la pallavolo: le società del vostro network operano all’interno di questa realtà? In che modo? “Tra i nostri direttori tecnici (uno per ogni regione) e referenti, più della metà sono insegnanti di Educazione Fisica. Gli altri si relazionano comunque alle scuole con progetti ad hoc, come avviene ad esempio in Molise e Abruzzo. In Basilicata abbiamo un forte rapporto con le istituzioni, specialmente a Potenza, dove la pallavolo e tante altre attività si sono sviluppate, grazie al supporto degli enti, anche nei luoghi più disparati come il parco urbano. Abbiamo in cantiere l’istituzione di alcuni eventi da destinare sia ai più piccoli che ai teenager: penso che riuscire a portare a compimento il prima possibile anche solo il primo di questi appuntamenti sarà la base della nostra ripartenza“. LE PUNTATE PRECEDENTI:1. La questione meridionale nel volley: perché manca il Sud ad alti livelli?2. Filippo Maria Callipo: “Sacrificio e costanza, le chiavi del successo di Vibo”3. Carlo Parisi: “Al volley del Sud mancano cultura e capacità dirigenziale” LEGGI TUTTO

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    Carlo Parisi: “Al volley del Sud mancano cultura e capacità dirigenziale”

    Di Agnese Valenti Prosegue il nostro viaggio nella pallavolo al Sud: un ciclo di interviste ad esperti, dirigenti, allenatori e giocatori per conoscere meglio la realtà del nostro sport nelle regioni del Mezzogiorno. Il protagonista dell’intervista di oggi è Carlo Parisi, allenatore di lunga esperienza nato a Catanzaro e cresciuto sportivamente a Messina, prima di diventare uno dei tecnici più apprezzati a livello italiano e internazionale con un curriculum ricco di successi. A lui abbiamo chiesto di raccontare la sua esperienza e di esplorare prospettive, limiti e potenzialità del pallavolo alle latitudini più meridionali dello Stivale. Dopo 8 stagioni a Messina (2 da vice allenatore per poi passare a head coach), la sua carriera si è sviluppata spostandosi sempre più a Nord: a Roma, a Chieri, per arrivare alla sua esperienza finora più longeva (11 stagioni) a Busto Arsizio. Lei crede che se, ipoteticamente, avesse scelto o le avessero proposto di rimanere in una società del Sud, sarebbe riuscito a raggiungere gli stessi obiettivi e risultati? “È una domanda molto difficile, ma voglio essere schietto: non credo. Nel momento in cui sono andato via da Messina, ho avuto la possibilità di spostarmi a Roma (sempre in A2), dove sono stato tre anni. La situazione in Sicilia stava evolvendo in senso negativo: ci sono stati gli anni d’oro – sono parte di quella storia di Messina – con la storica promozione in A1, ma sempre accompagnata da una situazione molto difficile da gestire, soprattutto dal punto di vista economico. Non credo che il mio percorso di Busto Arsizio si sarebbe potuto sviluppare allo stesso modo a Messina. Lo dico con grande rammarico: da quando sono andato via fino ad oggi, ciò che è successo parla chiaro. Quelli sono stati anni a cui non è stato dato un seguito“. Vede come una scelta forzata quella di lasciare il Sud per cercare di fare carriera e portare avanti un progetto più ampio? “Questo è un discorso abbastanza complesso: potrei rispondere allo stesso modo con un sì, ma anche con un no. La situazione è abbastanza complicata al Sud, basta vedere la geografia pallavolistica. Sono andato via ormai tantissimi anni fa e pur mantenendo i contatti con coloro con cui ho vissuto i miei anni a Messina, sia ciò che loro mi raccontano e sia ciò che leggo mi dice che – purtroppo – se qualcuno vuole proseguire questa carriera (già complicata di suo), ci vogliono una passione smisurata e una grande voglia di confrontarsi con gli altri. Una volta che sono andato via da Messina, inevitabilmente la mia vita si è spostata al Nord, anche per motivi privati: la mia compagna Marianna è di Novara“. Foto Facebook Vbc èpiù Casalmaggiore Cosa ne pensa della presenza limitata di società di pallavolo meridionali ad alti livelli e di giocatrici del Sud in formazioni del Nord e anche in nazionale, nonostante che questa attività sportiva sia ampiamente diffusa al meridione? “Quello che secondo me manca al Sud è una cultura e una capacità dirigenziale. A volte c’è un po’ di improvvisazione, a volte mancano le risorse. So che ci sono ovviamente ottimi allenatori anche al Sud, che c’è un movimento pallavolistico che purtroppo non riesce mai ad emergere, ma non si riesce mai a costruire qualcosa di duraturo. Tutto si scioglie come la prima neve al sole. Lavorare sulla crescita dei giocatori e delle giocatrici e sull’attività giovanile è un impegno e un investimento che richiede risorse. A volte è importante avere una società che trascina, come punto di riferimento, ma spesso dietro non c’è un lavoro che possa dare continuità, se eventualmente ci dovessero essere delle difficoltà. Ci sono delle realtà nel Meridione che si dedicano alla realtà giovanile, ma ci vogliono molti investimenti: le attività giovanili costano quasi più di una squadra che milita in una categoria superiore. Ci vogliono appassionati e gente che ha voglia di lavorare: i risultati non si ottengono nell’arco di poco tempo, ci vogliono molti anni. L’attività giovanile è quasi una missione: c’è bisogno che sia un obiettivo principale“. Quali sono i principali ostacoli che si incontrano al Sud dal punto di vista economico? “A Messina noi eravamo sostenuti dagli sponsor, indubbiamente fondamentali, ma dietro c’erano i ‘famosi’ contributi regionali da cui siamo dipesi per anni e anni. Oggi si vede una situazione che non è molto diversa da quella che lasciai io: ciò non vuol dire che non ci siano gli appassionati, ma il problema è che a volte si guarda troppo nel proprio orticello e si tende a tenerselo stretto. Non c’è stata una vera collaborazione tra società nella pratica. Non parliamo poi del disastro che ha provocato la pandemia: ad una situazione già complicata si è aggiunta la devastazione creata da attività sospese, scuole chiuse… al momento la situazione è molto difficile. La mia sensazione è che al Nord ci siano maggiori possibilità dal punto di vista dell’impiantistica e del materiale umano. Per quanto riguarda le sovvenzioni si apre un altro capitolo: lo sport ha sempre risentito parecchio di tutti i tagli che sono stati fatti alla spesa pubblica. Viviamo in un’epoca in cui si fanno tagli persino alla sanità, e sappiamo benissimo i risultati che ci sono stati. Si può anche entrare nel campo della qualità delle persone che ci governano, ma è un discorso molto ampio“. Foto Rubin/LVF Il problema, però, sembra non essere solo economico… “Quello che mi preme dire è che ci vogliono persone che abbiano passione e un’idea ben chiara in testa: la passione non è una cosa che alla prima difficoltà o al primo non-risultato crolla. La passione è quell’energia che ti porta ad andare sempre avanti, a guardare fisso l’obiettivo da raggiungere e cercare di creare le condizioni che ti portano a raggiungere quel determinato obiettivo. Ci sono tante realtà che lavorano nel giovanile, e che ormai sono ben conosciute in Italia. Tante altre società stanno cercando di stare in piedi, stanno cercando di rimanere a galla, e sono queste società che c’è bisogno di incentivare e stimolare a poter sviluppare ancora di più questa passione ed energia. La mia sensazione è questa: vedo che ci si arrende con troppa facilità, che quello che si sbandiera come ‘grande motivazione’ sparisce con eccessiva semplicità“. Ci fa qualche esempio concreto? “In Sicilia abbiamo Marsala, che è in A2 Femminile, mentre nel maschile ci sono meno realtà importanti. Un bacino come quello di Catania, che è sempre stata una città che ha dato talenti in Italia e che ha sempre avuto uno sviluppo della pallavolo altissimo, vive delle difficoltà ma si continua a lavorare. Il problema è che bisogna esserci dentro per capire i veri problemi. In Calabria c’è Soverato che, come sappiamo tutti, ogni anno riesce a finanziare un campionato di A2, ma non sembra che dietro ci sia qualcosa di concreto e duraturo, a parte gli sforzi del presidente Antonio Matozzo. Bisogna capire cosa realmente si vuole. Una realtà come Vibo Valentia è già diversa: da tanti anni è lì, quest’anno in particolare ha fatto molto bene. Questo può portare visibilità, può portare sponsorizzazioni, può portare tanta gente che si avvicina, però dietro ci deve essere un progetto solido che supporti tutto il resto. Un progetto duraturo con le idee molto chiare. Io penso che anche a livello dirigenziale bisognerebbe fare un percorso di formazione, come facciamo noi allenatori. Quando ero più giovane prendevo la macchina e andavo dappertutto: da Messina ero anche arrivato a Pordenone per seguire gli allenamenti della nazionale juniores. Questa è la voglia di confrontarsi e aggiornarsi. A livello dirigenziale non si fa un lavoro abbastanza qualificato per sapere di cosa veramente si parla: non è solamente la sponsorizzazione, piuttosto che il contributo pubblico, è tutto una serie di componenti che rendono una società strutturata, solida e con delle idee ben chiare“. Un ostacolo allo sviluppo del volley al Sud è la carenza di strutture, lei in questo senso che esperienza ha avuto? “Nel Sud la carenza di impianti è sempre stato un enorme problema. Basta guardare dove gioca la prima squadra di Messina, una formazione di B1 (Akademia Sant’Anna), con cui io ho vissuto la mia promozione in A1, che ha dovuto sospendere gli allenamenti perché pioveva dentro la struttura. Pur vivendo lontano da Messina da tanti anni, so che purtroppo lì la situazione è complicata. Quest’anno non fa testo: con il Covid ci sono state delle difficoltà che hanno coinvolto tutta Italia. Campionati sospesi, modificati, squadre che hanno rinunciato a fare il campionato con tante atlete e tanti atleti che sono rimasti a casa. Mi ricordo che quando a Messina sono entrato nel palazzetto, c’era la scuola, c’era il corso delle ‘mamme’ che andavano a fare attività (ride, n.d.r.)… poi piano piano, con una società che si è strutturata, che ha lavorato anche sul territorio, siano riusciti a guadagnarci i nostri spazi. Soprattutto grazie alla società che si è avvalsa di persone volenterose, di un allenatore con una lunga esperienza in serie A, che ha dato tutte le informazioni necessarie per collaudarsi, per superare i gineprai della burocrazia, per cercare di trovare degli spazi a gomitate, per cercare di far crescere una squadra che negli anni ha poi raggiunto una promozione. Poi però la squadra non è stata in grado di mantenersi, perché non c‘era dietro la possibilità economica per poter reggere una situazione del genere. Oggi le persone che conosco non mi dicono cose molto diverse. Ci sono sempre delle realtà diverse, delle situazioni differenti, qualcosa che emerge c’è sempre. Però i risultati si vedono col tempo e con la pazienza“. Foto CVF Lei è stato CT della nazionale ceca per tre anni: com’è stata la sua esperienza all’estero e quali differenze ha trovato con il sistema italiano?  “La mia esperienza con la Repubblica Ceca è stata molto positiva. È ovvio che essendo una nazionale hai meno problemi rispetto a quelli che una società di club potrebbe affrontare. Ci allenavamo d’estate, quando molte delle squadre erano ferme, però quello che ho incontrato è un paese che forse è rimasto ancorato a vecchie idee e non si è abbastanza evoluto. Parlo ovviamente del femminile: basta guardare il campionato ceco al momento. Un campionato in cui la squadra di vertice farebbe fatica in una nostra A2. Il livello è ‘così-così’: gli allenatori stessi non sono molto contenti di dover accettare la presenza di un tecnico straniero. In tre anni di lavoro avrò visto, per esagerare, una decina di allenatori, nonostante avessimo girato il paese in lungo e largo. È stata comunque un’esperienza positiva: ci si confronta con realtà, culture e abitudini diverse e questo non può che essere un arricchimento. Da un punto di vista pallavolistico, magari mi sarei aspettato qualche cosa in più. Ho avuto anche le mie soddisfazioni: ho fatto esordire in nazionale una ragazzina di 16 anni, azzardo che alla fine ha avuto i suoi aspetti positivi. Ho conosciuto tante atlete che anche in questi anni ho incrociato. A livello di strutture e organizzazione, qualcosina da dire ci sarebbe“. Ha anche allenato due club esteri, in Azerbaijan e Francia. “L’Azerbaijan è una realtà su cui c’è poco da dire. C’erano squadre che si facevano la guerra tra di loro: molte squadre erano legate ai ministeri o alle università. Viaggiavano quantitativi di soldi industriali, e si cercava di prendere i giocatori migliori per portarli lì. Dietro non c’era nulla: sia allora che ora. Una volta che sono finiti i soldi, il campionato azero non esiste più. La Francia è un pochino come da noi. Tolte alcune squadre della serie A (Mulhouse, Cannes, Béziers, Le Cannet), siamo andati a giocare in campi dove lo stesso allenatore ci montava la rete per gli allenamenti della mattina, oppure squadre che in trasferta si presentavano solo con l’allenatore in panchina. Ci sono però squadre che sono molto ben strutturate, c’è anche un’assistenza sanitaria, qualcosa di molto diverso da noi. È gestita meglio e c‘è più tutela, dato che atleti e allenatori sono professionisti. Nella serie A italiana abbiamo visto un po’ tutto. C’è anche un’altra differenza: l’allenatore tende ad essere sia allenatore che direttore sportivo. Si appoggiano molto a quello che fa e dice il tecnico. A differenza di ciò che succede da noi, in cui ci sono realtà in cui l’allenatore ha un peso specifico, ma anche altre situazioni in cui le società si muovono in maniera diversa. Lì quasi tutto dipende dall’allenatore, è lui che si deve muovere per costruire la squadra, finché la società lo può supportare. Ci sono anche altri fattori: noi ad esempio abbiamo fatto anche un corso per insegnare. Siamo a tutti gli effetti professori di scuola. C’è una visione diversa rispetto all’Italia. Poi ovviamente ci sono anche i contro, ma ci sono molti vantaggi“. LE PUNTATE PRECEDENTI:1. La questione meridionale nel volley: perché manca il Sud ad alti livelli?2. Filippo Maria Callipo: “Sacrificio e costanza, le chiavi del successo di Vibo” LEGGI TUTTO

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    Filippo Maria Callipo: “Sacrificio e costanza, le chiavi del successo di Vibo”

    Di Agnese Valenti Continua il nostro ciclo di articoli dedicato alla pallavolo nelle regioni del Sud. Dopo l’intervista al professor Daniele Serapiglia della Società Italiana dello Sport, con cui abbiamo esplorato il divario esistente tra le diverse zone d’Italia in termini di tesserati e di società di alto livello, oggi andiamo invece alla scoperta di una realtà virtuosa e fondamentale per il volley maschile di alto livello nel Mezzogiorno: la Tonno Callipo Calabria Vibo Valentia. La formazione giallorossa, che quest’anno ha disputato una stagione entusiasmante, chiudendo la regular season al quinto posto in classifica e sfiorando una semifinale, è l’unica squadra meridionale in Superlega, un importante punto di riferimento per atleti e società del territorio con grandi progetti per il futuro. Abbiamo intervistato il vicepresidente del Club calabrese, Filippo Maria Callipo, ventiseienne e secondogenito del massimo dirigente Pippo Callipo, che già da due anni svolge con dedizione il ruolo dirigenziale dando prova di aver ereditato dalla famiglia l’amore per la sua terra e per la pallavolo. Foto Volley Tonno Callipo La vostra storia ha avuto inizio nel 1993 con la fusione tra le due realtà sportive locali, Pallavolo Vibo Marina e Fiamma Vibo Valentia. Sono passati quasi 28 anni da quella data: cosa è cambiato da quel giorno, e quale pensate sia stato il fattore principale che ha portato al successo la società e la squadra? “Quando mio padre decise di assecondare l’iniziativa di un gruppo di amici, sostenendo il loro progetto sportivo per una squadra militante in C2 con una piccola sponsorizzazione, per lui si trattava di un hobby a cui dedicarsi nel tempo libero. Man mano che la squadra compiva la sua scalata sono aumentati, naturalmente, anche impegno ed attenzione. Una volta raggiunta la Serie A2 ci si è resi conto che era necessario iniziare a strutturare un’articolata organizzazione di professionisti e quindi l’attività ha preso le sembianze di un lavoro a tutti gli effetti. Sacrificio e costanza sono state le coordinate che hanno guidato il nostro viaggio. Sono servite anche buone dosi di passione ed impegno“. Quali sono state le principali difficoltà che avete incontrato nel corso della vostra esperienza in Serie A? In particolare, è stato difficile “convincere” giocatori di alto livello a trasferirsi a Vibo, in un contesto diverso da quello del Centro-Nord? “La posizione geografica non ci ha mai avvantaggiato, considerato che la maggior parte delle squadre che disputano il campionato di Superlega appartengono a città del Centro-Nord. Più salivamo di serie e meno squadre del Sud trovavamo tra i nostri competitor. Purtroppo questo trend non è cambiato negli anni. Far arrivare i giocatori a Vibo è complicato, tant’è che cerchiamo sempre di selezionare atleti che credono con convinzione nel nostro progetto. I giocatori di alcune nazionalità sono più propensi a venire al Sud, sentendosi più affini al nostro ambiente e al nostro calore. È il caso dei brasiliani, che ormai da anni considerano la Calabria una seconda casa“. Tonno Callipo Calabria Volley La pallavolo al Sud ha una grande tradizione, ma fatica ad esprimere realtà di prima fascia, soprattutto nel settore femminile. Quali sono secondo voi le principali cause di questa situazione? “Le difficoltà sono soprattutto legate alle condizioni socio-economiche. Non ci sono molte società sportive che possano lavorare attivamente al reclutamento dei giovani atleti, che per questo non riescono, di conseguenza, a crescere tecnicamente nel loro territorio“. Molte volte durante la vostra storia siete stati costretti ad “emigrare” in palazzetti di altre città (l’ultima volta durante il campionato 2019-2020, quando vi siete temporaneamente trasferiti a Reggio Calabria). Come pensate si possa affrontare il problema della carenza di strutture, che è uno dei grandi disincentivi per lo sviluppo della pallavolo – e dello sport in generale – ad alto livello nel meridione? “Paradossalmente da noi, effettuando una mappatura del territorio, si evince che non c’è una carenza di strutture (solo nella provincia di Vibo se ne contano una decina). Semmai si può parlare di una sovrabbondanza di impianti sportivi, che però sono abbandonati e non fruibili dalle piccole società, che ne avrebbero necessità e che da sole non riescono a riqualificarli e gestirli“. L’inaugurazione del PalaMaiata Il vostro settore giovanile dà la possibilità a ragazze e ragazzi del Sud Italia di esprimere il proprio talento, ma purtroppo pochi di questi giocatori riescono a proseguire la propria carriera da alti livelli. Cosa pensate scoraggi i giovani meridionali o ostacoli la loro crescita? “Per una questione di mentalità i giovani del Sud preferiscono dedicarsi agli studi universitari intravedendo, in questa strada, maggiori sicurezze per il futuro, a discapito del tempo dedicato allo sport che diventa quindi marginale. Solo quelli più talentuosi, sentendosi da subito appagati, continuano la carriera pallavolistica“. Un tema su cui si dibatte costantemente, per quanto riguarda la Superlega, è lo spazio dato ai giocatori stranieri a scapito dei giovani italiani. Pensate che per la crescita del movimento sarebbe giusto dare maggiore spazio ai talenti del nostro paese? “Credo che per favorire la crescita del movimento sia necessario potenziare le basi del sistema, e cioè partire dal reclutamento dei settori giovanili, in modo tale che ci siano sempre più ragazzi italiani a praticare questo sport. Così aumenterebbero le possibilità che ad emergere siano i talenti nazionali, che in maniera del tutto naturale andrebbero a sottrarre posti agli stranieri“. Recentemente Vibo Valentia ha ospitato l’edizione 2021 del torneo WEVZA Under 17 maschile. Pensate che sia possibile ripetere l’esperienza con altre manifestazioni internazionali e che questo tipo di eventi possano costituire un volano utile per la crescita del territorio? “Eventi nazionali e internazionali di questo genere possono risvegliare e riaccendere l’interesse per la pallavolo in Calabria e nel Sud. Speriamo ce ne possano essere altri con la presenza del pubblico“. La squadra di Serie B / Foto Tonno Callipo Calabria Vibo Valentia Quest’anno, con il vostro quinto posto e una semifinale sfiorata, avete raccolto i frutti del vostro lavoro. In questa fantastica stagione è però mancata la spinta del calorosissimo pubblico giallorosso. Quanto conta per voi il sostegno dei tifosi e cosa si può fare per aumentare il loro coinvolgimento e il legame con il territorio, Covid permettendo? “Come in qualsiasi sport, i risultati incidono molto sull’umore della tifoseria. Quest’anno, con la stagione brillante che abbiamo disputato, avremmo sicuramente colorato il PalaMaiata di giallorosso in ogni partita, rendendo il pubblico un giocatore in più sul campo. Il nostro impegno sarà quello di promuovere dei momenti di incontro tra la squadra ed i tifosi, non solo in presenza ma anche attraverso l’uso dei social e del web, per riappropriarci di tutto il tempo perso“. La pallavolo cresce moltissimo e si sviluppa particolarmente nelle scuole. Come società operate anche all’interno degli istituti scolastici, per avvicinare le giovani ragazze e i giovani ragazzi alla pallavolo e alla Tonno Callipo? “Da sempre svolgiamo progetti scolastici su tutto il territorio calabrese, principalmente nella provincia di Vibo. Questa iniziativa ha avuto sempre grande successo e ottimi risvolti, per cui speriamo di poter riprendere prima possibile il nostro tour nelle scuole per dialogare da vicino con i giovani e avvicinarli al nostro mondo“. LEGGI TUTTO

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    La questione meridionale nel volley: perché manca il Sud ad alti livelli?

    Di Agnese Valenti La pallavolo è senza dubbio uno degli sport di squadra più popolari in Italia, insieme al calcio e alla pallacanestro. Come tanti altri settori nel nostro paese, anche il volley deve però fare i conti con un notevole “gap” geografico: giocatrici e giocatori, infatti, non sono equamente distribuiti su tutto il territorio nazionale. I dati dei campionati di alto livello parlano di un’enorme disparità tra Nord, Centro e Sud. In Superlega, su 165 giocatori in totale, 95 sono italiani, e di questi solo 15, appena il 15,7% del totale, sono giocatori del Sud. Una sola squadra meridionale, la Tonno Callipo Calabria Vibo Valentia, partecipa al campionato. In Serie A1 femminile il bilancio è notevolmente peggiore: non c’è nessuna squadra proveniente dal Mezzogiorno e solo 10 giocatrici su un totale di 173 sono originarie del Sud, nonostante il numero di italiane sia piuttosto alto, ben 109, il 63% del totale. Analizzando questi numeri ci siamo posti una semplice domanda (la cui risposta non è però altrettanto semplice): possiamo parlare di una “questione meridionale” nella pallavolo italiana ad alti livelli? E a cosa è dovuta questa disparità? Per approfondire l’argomento abbiamo intervistato il professor Daniele Serapiglia, docente a Bologna, Lisbona e Madrid, esperto di Storia dello Sport e membro della SISS (Società Italiana di Storia dello Sport). La pallavolo nasce nel 1895 negli USA: come si è sviluppata in Italia? A livello territoriale quali sono state le differenze tra Nord, Centro, Sud? “La pallavolo è arrivata in Italia con gli americani durante la Prima Guerra Mondiale. Di fatto, faceva parte dei programmi di svago delle truppe statunitensi al fronte e quando queste sono arrivate di sostegno in Italia, l’esercito italiano ha cominciato ad interagire con loro, peraltro in luoghi strategici come ad esempio Parma e Ravenna, che diventeranno importanti per la pallavolo italiana. Nelle retrovie, si è cominciato a praticare la pallavolo grazie alla YMCA (Young Men Christian’s Association) che era stata chiamata dal governo USA per organizzare il gioco, lo svago e lo sport delle truppe. Come si è sviluppata la pallavolo nella penisola? Di fatto fino ad anni molto recenti, ma tutto sommato anche adesso, troviamo un nucleo fondamentale nelle regioni del Centro-Nord (Toscana, Emilia Romagna, Veneto e Lombardia) e molti meno tesserati nel Sud e nelle isole, nonostante ci sia una certa tradizione in Sicilia (soprattutto a Catania), a Matera e a Bari. Inizialmente era uno sport locale che, subito dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, si giocava soprattutto tra le file dell’esercito, nonostante che fosse uno sport non ancora agonistico e riconosciuto dal CONI (riconoscimento che avverrà solo nel secondo dopoguerra): era semplicemente uno sport di preparazione fisica, anche perché non esistevano ancora né il bagher e né il muro e poteva quindi essere considerato alquanto noioso. La pallavolo arrivò al pubblico di massa nel contesto del “dopolavoro” durante il Fascismo: ogni azienda (soprattutto del Centro-Nord) aveva un proprio dopolavoro, in cui si faceva sport e si praticava un po’ la pallavolo. Sostanzialmente il volley delle origini era concentrato principalmente nelle regioni dove poi nascerà la grande pallavolo nostrana, quindi al Centro-Nord“. Vini Doc Bari 1987-88 / Foto Wikipedia Si può parlare di “questione meridionale” nel volley italiano di alto livello? “Assolutamente. È importante notare che la pallavolo femminile del Sud ha vinto di più della pallavolo maschile della stessa zona. La maschile ha solo uno scudetto, quello di Carmelo Pittera del 1977-1978, a Catania; nel volley femminile abbiamo invece i quattro scudetti di Matera, lo scudetto di Bari e subito dopo quello di Catania. Questo perché quando la pallavolo si è sviluppata realmente in Italia, cioè nel secondo dopoguerra, lo ha fatto soprattutto al Centro-Nord in quanto il volley nel contesto della scuola e grazie a enti di propaganda sportiva, come il CSI (Centro Sportivo Italiano) e la UISP (Unione Italiana Sport Popolare) che facevano parte di una sorta di “battaglia politica” sul campo sportivo. Il CSI era più vicino alla Democrazia Cristiana, mentre la UISP era, all’opposto, più vicina al Partito Comunista e al Partito Socialista. Paradossalmente, lo sport femminile si è sviluppato di più dove c’era un contrasto tra squadre vicine al PCI (facenti parte della UISP) e squadre più vicine alla DC; dove era molto forte la DC, invece, non c’è stato un grande sviluppo dello sport femminile, perché i cattolici dell’epoca non vedevano di buon occhio la partica dello sport tra le donne. Era presente l’idea di far giocare i giovani nell’oratorio, per poi portarli a messa e, magari, farli votare Democrazia Cristiana. Ma non era così semplice. Lo sport non è facilmente manipolabile”. Quali sono le differenze tra Nord e Sud a livello di infrastrutture, palazzetti e palestre? “Per rispondere parto dalla pallavolo femminile, che ha cominciato a espandersi negli anni ’80, quando in Italia c’era un programma di sviluppo di strutture pubbliche, all’interno delle scuole ma anche fuori. La maggior parte di queste strutture si trova però al Centro-Nord. Nelle regioni del Sud non soltanto c’è una carenza di infrastrutture sportive, ma c’è anche un minor investimento pubblico. Una differenza rispetto al Nord esiste anche per quanto riguarda le infrastrutture stradali: nel Sud all’epoca dello sviluppo del volley c’erano molti paesi più piccoli (non in grado di creare entità sportive capaci di generare squadre e campionati) e c’era una forte emigrazione. Esistevano inoltre molti pregiudizi culturali sulla crescita dello sport femminile. Infine mancavano le infrastrutture all’interno della scuola, molto importanti per lo sviluppo dello sport. Si può vedere questo fenomeno rapportato anche ad un’importante regione del Centro-Nord, l’Emilia Romagna: ad esempio, il palazzetto di Modena venne costruito negli anni ’80, mentre prima si giocava in un capannone. La pallavolo era una sconosciuta, mentre oggi è uno degli sport più importanti nel nostro Paese, dopo calcio e basket. Fino all’inizio degli anni ’80, tutto questo non esisteva e molto è cambiato in quella particolare decade. Questo è successo in virtù di una propulsione che veniva principalmente dalle squadre del Centro-Nord: Modena, Parma, Ravenna, Milano, in un periodo in cui ci fu un flusso di denaro enorme nel volley. Lo stesso Zorzi, quando venne chiamato a far parte della Mediolanum Milano, racconta di un assegno con cifre che fino a quel momento un pallavolista non aveva mai visto“. Foto Ufficio Stampa Tonno Callipo Calabria Vibo Valentia Possiamo anche parlare di una questione culturale? È possibile che lo sport in alcune regioni sia visto come passatempo/hobby più che come “professione”, quindi con minore investimento di tempo, impegno e denaro? “Secondo me è sicuramente una questione culturale, che però dipende anche dal tipo di lavoro, di impegno e di investimenti. Oggi in Italia, lo sport è molto vincolato al privato, quindi alle singole società sportive. Le persone devono avere denaro per far praticare lo sport ai figli oppure per praticarlo loro stessi. Certo è che negli anni ’80, quando ci fu la diffusione dello sport femminile (in particolare l’aerobica), vennero aperte molte palestre, soprattutto al Nord. Esiste anche un ritardo culturale del Sud rispetto al Nord riguardante la pratica sportiva. Bisogna dire che la pratica sportiva si sviluppa attraverso le strutture, ma la passione sportiva esiste dappertutto e viene veicolata attraverso i media. A livello culturale c’è una diversa propensione allo sport laddove ci sono le strutture rispetto a dove non ci sono, nei luoghi in cui è stato fatto un ragionamento politico, un investimento sulle strutture sportive, e in quelli in cui non è stato fatto un ragionamento del genere. Poi, per quanto riguarda le donne, c’è anche un fortissimo maschilismo che non aiuta l’espansione dello sport femminile al Sud. Nella pallavolo le donne sono molte di più degli uomini, e c’è stato addirittura un periodo in cui la pallavolo è stata considerata come uno sport propriamente femminile; ma, se andiamo a vedere la situazione dei vari organi federali e degli allenatori, anche nella pallavolo femminile la maggior parte di chi si trova in posizioni importanti è uomo. E bisogna far fronte anche a situazioni allucinanti, come ad esempio l’ultima vicenda della pallavolista Lara Lugli, che fortunatamente ha avuto grande rilevanza mediatica e ha avuto una grande risposta su campi maschili e femminili. C’è anche una grande difficoltà per le madri nel lasciare i bambini in istituti (nursery, asili) per andare a praticare lo sport, e questo limita fortemente l’età delle giocatrici”. Quanto sono importanti la scuola e l’istruzione come veicoli per lo sviluppo dello sport, e della pallavolo in particolare? “Si comincia a giocare a pallavolo proprio a scuola. Molte volte gli stessi istruttori scolastici ricoprono poi il ruolo di allenatori nelle società. Il problema è sempre lo stesso: legato alle strutture ma, soprattutto, legato alle persone. Dove attecchisce maggiormente lo sport? Dove c’è una maggiore istruzione. Dove ci sono un abbandono scolastico più alto e un’immissione nel mondo del lavoro precoce c’è anche una minore propensione allo sport. Cosa significativa degli anni ’80 è che lo sport si è andato a radicare dove più forti erano i movimenti femministi. Ad esempio, Catania vide un’espansione del movimento pallavolistico maschile e femminile: a Catania erano presenti movimenti femministi molto forti, come in tutta la Sicilia in generale. Questo fenomeno si vede in tutta Italia: se guardiamo una mappa, lo sport (soprattutto a livello femminile) ha una maggiore partecipazione dove ci sono più cultura e più strutture“. Torre Tabita Catania 1978-79 / Foto Wikipedia C’è una differenza tra Nord e Sud a livello di investimenti nei settori giovanili (Trento e Padova nel settore maschile, Novara nel femminile)? “Sicuramente. C’è anche una differenza di investimento nel tempo: tutti gli esempi che abbiamo fatto (Bari, Catania, Matera) hanno avuto un arco temporale molto limitato. Abbiamo avuto Bari che è stata ad alti livelli per 2-3 anni; Catania, appena dopo l’abbandono dello sponsor, pochi anni dopo la vittoria dello scudetto, ha perso appeal. Mentre Matera, con il crack della Parmalat, ha perso tutte le sue risorse economiche senza alcun intervento pubblico, né da parte del Comune di Matera né da parte della Regione Basilicata. È l’investimento privato che fa crescere la pallavolo, insieme all’investimento scolastico. La pallavolo nasce nella scuola ma, ad alto livello, si crea negli istituti privati: c’è l’investimento privato, non solo quello pubblico. A Ravenna, dove c’è una grande tradizione pallavolistica, nonostante la fine del Messaggero e della Teodora, ci sono stati molti investimenti privati che hanno favorito il mantenimento di un movimento giovanile. A Matera il fenomeno è stato più discontinuo, nonostante i dieci anni passati ad alto livello avessero creato un bel progetto: la mancanza di investimenti privati ha causato la fine della società“. Il progetto del Club Italia e in generale l’attività delle nazionali possono aver agevolato la crescita di nuovi talenti provenienti da regioni pallavolisticamente “povere”? “Io credo di sì. Mentre seguivo la Roma Volley durante il suo periodo in A1, ho guardato con molto interesse lo sviluppo del Club Italia, che effettivamente riesce a creare uno spazio per i giocatori e le giocatrici di regioni più pallavolisticamente svantaggiate. Ma se non ci sono le strutture in loco, se non c’è lo sviluppo dei giocatori e dei movimenti pallavolistici direttamente sul posto, sia per la nazionale che per il Club Italia diventa difficile trovare giocatori provenienti dal Sud”. LEGGI TUTTO